Restituiamo a Beethoven un po’ d’umanità

È vero che manca ancora un bel po’ alla fine d’anno, ma già avverto apprensione per cosa probabilmente ci porterà il 2020. Nel prossimo anno ricorre infatti il 250. anniversario della nascita di Ludwig van Beethoven.
La musica di Beethoven è già massicciamente presente nei programmi concertistici. Il mio timore è che l’anno prossimo la dose venga ulteriormente rincarata. Non sarebbe questo il modo migliore per onorarne la memoria. Mettiamola così: la torta al cioccolato piace a tutti, ma ben pochi vorrebbero mangiarla tutti i santi giorni. I compositori stessi, numerosi aneddoti storici lo ricordano, sono raramente ingordi nei confronti della propria musica. C’è da domandarsi se Beethoven sarebbe stato disponibile a riascoltare le nove sinfonie un centinaio di volte. Totò commenterebbe: ogni limite ha una pazienza!
C’è dunque da dubitare che le scorpacciate musicali siano veramente cosa sana. Secondo me, altri percorsi sono possibili. Per esempio, approfondire la comprensione degli autori che amiamo, prendendo in considerazione i loro gusti musicali.
Spiego meglio: Bach stimava Dietrich Buxtehude, Johann Friedrich Fasch, e Jan Zelenka. Haydn apprezzava Adalbert Gyrowets. Mozart nutriva alta considerazione per Joseph Eybler, Johann Schobert e Jiri Antonin Benda. Beethoven venerava Luigi Cherubini (il cui Requiem considerava superiore a quello di Mozart), poi nutriva grande stima per Muzio Clementi e definì Handel come il più grande compositore mai esistito. Rossini ammirava Simon Mayr. Berlioz, Verdi, e Liszt ritenevano che «Les Huguenots» di Meyerbeer fosse un vero e proprio capolavoro. È interessante, che i programmi concertistici solo raramente ci propongono gli autori preferiti di Bach, Haydn, Mozart, Beethoven e Rossini. Forse che il loro gusto lascia qualcosa a desiderare, orientato com’erano verso autori (che noi oggi consideriamo) di seconda categoria? L’alto giudizio dei posteri, che in questo caso siamo noi, mi lascia perplesso.
Io vorrei suggerire che un modo serio di apprezzare i maestri del passato sarebbe quello di approfondire proprio la conoscenza dei loro contemporanei, perché solo dal confronto emerge una misura ponderata del loro talento. Un artista non è mai grande in astratto e nel vuoto, ma lo è quando sa corrispondere significativamente al proprio tempo, costruendo sugli stimoli che provengono dall’ambiente a cui appartiene. Paragone e confronto sono alla base di ogni valutazione, e rivelano spesso interessanti sorprese. In un articolo sul «New Yorker», Alex Ross ha recentemente osservato che, quando si approfondisce la conoscenza di Salieri, allora ci si rende conto che Mozart era sì più bravo – ma non infinitamente più bravo; in altre parole, l’ordine di grandezza è lo stesso, siamo sempre in serie A. Dunque, una buona conoscenza di Salieri, aiuta a mettere a fuoco meglio, a meglio valutare aspetti specifici del talento di Mozart che altrimenti sfuggono.
Non mi sembrerebbe giusto omaggiare ‘Ludwig van’ macinando la sua musica con maggiore pervicacia di quanto già non si faccia. Così la si banalizza soltanto. Mi viene di pensare ai miei nonni che tiravano fuori le tovaglie di merletto quando ricevevano ospiti, ma non si sognavano di usarle tutti i giorni sul tavolo della cucina. Esploriamo allora l’intorno di Beethoven, mettiamolo in contesto: ascoltiamo i compositori della Rivoluzione francese (p. es. Gossec, Méhul, Lesueur, Cherubini) per comprendere da dove provenga il «sound» beethoveniano; confrontiamo le sue originalità con quelle del suo amico Antonin Reicha, che quanto ad originalità non scherzava proprio. Non sarebbe nemmeno male se le organizzazioni concertistiche ci aiutassero a conoscere l’amico-nemico di ‘Ludwig van’, cioè Johann Nepomuk Hummel, che così tanto spazio occupava nella vita musicale viennese di quel tempo.
Un altro modo di onorare il grande Beethoven sarebbe quello di restituirgli un po’ di umanità, smettendo di santificarlo e riconoscendo che anche lui – fortunatamente – non era perfetto. Dopotutto, quando si ama, ci si affeziona anche ai difetti della persona amata, e il nostro Ludwig qualche difetto ce l’aveva. Nella «Nona Sinfonia» e nel «Fidelio» i cantanti si sono sempre rammaricati che Beethoven non abbia tratto maggior profitto dalle lezioni di scrittura vocale che ebbe da Salieri. Sarebbe opportuno anche non dimenticare quanto Jonathan Del Mar segnala nella sua edizione delle Sinfonie (Bärenreiter Urtext Edition, 1996-2000), è cioè che quasi tutti i passaggi arditi e bizzarri di queste composizioni sono il risultato di... banali errori di stampa!
E se proprio si vuole riproporre Beethoven in misura orgiastica, suggerisco di insistere almeno sui quartetti. Ben pochi tra gli adepti della musica classica veramente li conoscono. Questi quartetti (con cui Beethoven fece del «quartetto» il genere più «serio» della «musica seria») hanno tutto quello che ci vuole per piacere ai «profondisti» – ben più delle sinfonie. Mi riferisco ai palombari dell’estetica, a coloro che sempre rifiutano la frivolezza e nell’arte apprezzano solo gli abissi estremi.
Insomma, riusciranno le incipienti celebrazioni beethoveniane a farci maggiormente apprezzare il maestro di Bonn, o lo offenderanno con una pletora di esecuzioni superflue, anche di composizioni che l’autore aveva messo nel dimenticatoio? Mi auguro il meglio, ma mi preparo al peggio.