Il ricordo

Ruby Belge e un’epoca diventata un’epopea

A dieci anni dal match con Matthew Hatton a Bolton, Paride Pelli - allora inviato in Inghilterra - ripesca le emozioni, i retroscena e il valore di un grande evento per la boxe ticinese
©Ti-Press/Gabriele Putzu
Paride Pelli
26.11.2020 06:00

Scusa ma sono nervoso in vista del combattimento, preferisco rimanere in camera mia. Ricordo di aver risposto così al collega che, qualche ora prima del match, mi invitò a fare due passi nella peraltro grigia e gelida Bolton, per ingannare l’attesa della sfida che metteva in palio il titolo europeo dei pesi welter. Avevo avuto la fortuna e il privilegio di poter seguire tutta la carriera di professionista (e in parte, in precedenza, di dilettante) di Ruby Belge, la sua ascesa ad alti livelli, e ora che dalle palestre polverose del nostro cantone eravamo passati al palcoscenico internazionale, ai luccichii, ai microfoni e alle telecamere, alla cerimonia del peso in diretta TV, io giornalista (ma soprattutto amico di Ruby) ero più teso di lui prima del prestigioso match.

Ruby non poteva non raccogliere il guanto di sfida lanciatogli dal detentore del titolo Matthew Hatton, ma a quel match arrivava provatissimo, mentalmente e fisicamente: era appena tornato dal fido allenatore e mentore Federico Beresini dopo la fallimentare parentesi con Patrizio Oliva all’angolo. Le premesse – diciamolo francamente – non erano delle migliori: gli scommettitori non puntavano un «pound» sul (per loro) semisconosciuto «swiss fighter», e anche chi lo conosceva bene coglieva tracce di inquietudine nel suo sguardo, nelle sue parole. Dieci anni fa, oltretutto, Hatton era un cognome altisonante della «nobile arte»; il celebre Ricky era un grandissimo picchiatore, suo fratello Matthew – appunto l’avversario del ticinese – non colpiva così forte, ma era un eccellente tecnico, determinato, preciso, cattivo il giusto. Il pronostico non dava insomma scampo al ticinese, tanto più che si combatteva in Inghilterra, con arbitro e giudici «casalinghi» (una regola non scritta nel mondo del pugilato): sarebbe servito probabilmente un «lucky punch» per sperare di portare a casa la bramata cintura EBU che faceva bella mostra di sé a pochi metri dal quadrato.

Quel pugno della domenica non arrivò mai e il sogno di Ruby - e di riflesso il mio e dei numerosi amici che lo accompagnarono in quella indimenticabile avventura nella sperduta città della Contea di Manchester - durò pochi minuti: un gancio sinistro chirurgico al fegato piegò la sua resistenza e segnò la fine del match già alla terza ripresa. Quel preciso e drammatico momento coincise, di fatto, con la conclusione della carriera ad alti livelli del nostro pupillo e, più in generale, di un’epoca che grazie a Ruby, alle sue gesta, alla sua popolarità, si trasformò in un’epopea, con punte fino a duemila spettatori a bordoring. «Se non trasmettessimo i suoi match credo che la gente verrebbe a protestare sotto la nostra sede di Comano» mi confidò un giorno l’allora capo dipartimento sport della RSI, Andreas Wyden, impressionato dai dati d’ascolto che puntualmente facevano registrare le dirette televisive.
Mi fanno notare che sono passati dieci anni da allora: la mia oggi è una cartolina ingiallita, un ricordo intriso di nostalgia e di commozione pensando a quel periodo esaltante e soprattutto a quegli appassionati che non sono più tra noi, come il manager Michele Barra e i colleghi giornalisti Bobo Bertoglio e Mariano Botta.