Cultura

Se i maestri ci danno soltanto fastidio

L’editoriale di Matteo Airaghi
Angelo Frigerio è stato un vero maestro
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
16.12.2019 06:00

Alcuni di gran peso se ne sono andati anche quest’anno. A personaggi come Franco Zeffirelli, Andrea Camilleri, Bruno Ganz o Robert Frank, d’altronde, il titolo di «maestro» si attribuiva quasi spontaneamente. Nel nostro piccolo abbiamo avuto la fortuna e l’onore di una figura indimenticabile sul piano umano, civile e morale come quella di Angelo Frigerio, che è stato e rimarrà per sempre «il signore» incontrastato di tutti i maestri. Eppure, fateci caso, in quest’epoca triste di egualitarismo narcisistico e disinformato, per i maestri tira una gran brutta aria. Logica conseguenza, giurerebbe qualcuno, di società che appiattiscono l’alto sul basso, dove trionfano soltanto influencer, comunicatori, persuasori e tutor che rassicurano e consolano, suscitando facili e plebiscitari consensi a colpi di like, emoticons e simpatici rimbecillimenti vari. Ma che cosa intendiamo con il termine maestro? E per quale ragione dovremmo dolerci della progressiva emarginazione di queste ormai anacronistiche figure dal nostro universo culturale, sociale e intellettuale? In un mondo curvato alle esigenze dell’utile e del produttivo a prendersi la briga di articolare un discorso sui maestri con un dotto e gustosissimo pamphlet (provocatoriamente intitolato Mai più senza maestri) è un insospettabile.

Vale a dire uno dei più autorevoli giuristi italiani, il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, che ne disegna un identikit molto interessante, a partire dalla etimologia del magister, che vorrebbe designare qualcuno che ne sa «di più». Specificando però che il maestro non guarda dall’alto gli allievi, ma è mosso da una sempre vigile voglia di imparare: lungo il difficile percorso in salita della conoscenza, precede provvisoriamente i discepoli, ben sapendo che un giorno loro potranno superarlo o cambiare strada, trovandone una più congeniale. Senza dimenticare che il disprezzo o il dileggio per i maestri non è disciplina moderna: fin dall’antichità, spiega Zagrebelsky con il Teeteto di Platone, se agli intellettuali si chiede di «pentirsi» ecco che i «maestri» che pretendono addirittura di insegnare sarebbero gli intellettuali più colpevoli di tutti gli altri. Certo dal Sessantotto in poi per i maestri l’atmosfera si è fatta davvero irrespirabile. «Jamais plus des maîtres» scrivevano sui muri della Sorbona nel maggio parigino gli adepti di un credo antiautoritario ed egualitario che sfociò invece nell’idolatria di altri maestri, quelli cattivi, con le tragiche conseguenze che oggi tutti ricordiamo.

Negli anni Duemila arrivò invece l’ironia di Edmondo Berselli a mettere i maestri alla berlina, basando uno spietato ritratto della cultura italiana sul celebre paradigma di Alberto Arbasino secondo il quale: «C’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di “brillante promessa” a quella di “solito stronzo”. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di “venerato maestro”».
E oggi? Oggi nell’epoca dell’ «uno vale uno», della fine della competenza, degli «orgogliosi» di non sapere le cose, dell’uguaglianza confusa e trasformata nell’egualitarismo, dove verità e menzogna si mescolano ad arte diventando semplici questioni di opinione in nome del pericolosissimo e falsamente democratico «io valgo quanto te», a cosa mai potrebbero ancora servire i maestri? Ce lo spiega bene Zagrebelsky nella parte più utile e controcorrente del suo libro restituendo dignità alla figura del maestro, così come a quella del discepolo, a maggior ragione nella nostra società evoluta e in questo preciso momento storico. Ed ecco che colui che sa davvero trasmettere conoscenza diventa l’ultimo baluardo contro il pensiero unico, l’antidoto in extremis alle dosi massicce di omologazione strisciante di cui veniamo imbevuti giorno dopo giorno. Il segreto autentico del magistero è rimasto la capacità di suscitare l’inquietudine del dubbio, di indicare le vie «dell’altrimenti», di svelare connessioni alternative anche a costo di divisioni e rotture per riallacciare i fili dispersi del sapere in modo nuovo. Con l’umiltà di capire la differenza tra insegnare ed educare, fornendo al discepolo gli strumenti per comprendere realmente qualcosa anche, al limite, per poter andare oltre o infrangere ciò che è stato trasmesso, se così deve essere. Altro che vecchi tromboni che calano inutili lezioni dall’alto, oggi i maestri sono coloro che possono risvegliare le nostre coscienze digitalizzate intontite dai post e assillate dai social, coloro che ci insegnano e ci costringono a pensare. Oddio che brutta parola. Vuoi vedere che è per questo che ci danno fastidio più che mai?