Se il destino è come uno yogurt

di CARLO SILINI - La chiameremo «sindrome dello yogurt»: consiste nel preoccuparsi in continuazione per la data di scadenza di un prodotto corruttibile. Affligge l'umanità da sempre. Lo yogurt che tanto inquieta l'uomo è il destino dell'uomo stesso che continua a ingegnarsi per allontanare il più possibile da sé il momento «naturale» della dipartita. Alla «sindrome dello yogurt» dobbiamo scoperte importantissime: dalle misure igieniche per non diffondere virus alla comprensione del funzionamento delle erbe medicinali, dalle vaccinazioni agli antibiotici. Ma oggi, in quella che per secoli è stata la dura lotta per la sopravvivenza, sta avvenendo un salto di qualità. Diverse tecnologie d'avanguardia concorrono a realizzare il più audace progetto scientifico di tutti i tempi: abbattere uno dopo l'altro i limiti naturali iscritti nel corpo. La conoscenza sempre più precisa dei meccanismi che regolano la macchina del nostro organismo induce una generazione di pensatori e di ricercatori a ritenere che entro qualche decennio l'uomo potrà «gettare» i pezzi del proprio corpo che non funzionano sostituendoli con artefatti in grado di riprodurre perfettamente le loro funzioni. La tendenza è già in atto da decenni, basti pensare alle molte persone che vivono fra noi con un corpo ibridato da oggetti meccanici: pacemaker, protesi, ortesi e valvole varie che lavorano meglio della parte anatomica da essi sostituita. Fin qui è musica nota. Oltre ai «pezzi di ricambio», tuttavia, i fautori del «postumanesimo» (così si chiama il movimento che teorizza il definitivo superamento della nostra fragilità fisica) sognano di passare da una medicina che cura i corpi malati a una medicina che rende indistruttibili i corpi sani. L'esempio più calzante è quello degli umani che verranno: c'è chi si chiede perché – date le conoscenze che stiamo acquisendo in materia di ingegneria genetica – non dovremmo creare nuove generazioni di bambini con capacità fisiche e cognitive maggiori delle nostre. In prospettiva, che cosa ci vieterà di progettare dalla A alla Z il sesso, la corporatura, il colore degli occhi e dei capelli dei nostri discendenti? La scienza riproduttiva in questo caso non verrebbe utilizzata per prevenire o curare malattie, ma per disegnare a tavolino una razza più performante di esseri umani. Il treno della scienza procede spedito senza fermate, ed è un bene. Più cose sappiamo, più strumenti abbiamo per vivere meglio sia sul piano collettivo che individuale. Ma sarebbe ingenuo pensare che solo perché una cosa è tecnicamente fattibile, allora sia automaticamente saggio farla. Dobbiamo porci in fretta una domanda all'apparenza stupida: a partire da che punto non è più sensato/giusto/legittimo utilizzare le nostre conoscenze per ridisegnare «in meglio» un essere umano sano? Sembra un'eresia chiederselo, ma qui non si tratta di qualche innocente vanità, come il ritocco estetico per correggere il naso aquilino o togliere i rotolini di troppo. Qui si tratta di chiedersi se fra qualche decennio non finiremo col sostituire a uno a uno i nostri organi interni o esterni, man mano che decadono per il normale avanzare dell'età. Se non vorremo avere muscoli d'acciaio nuovi di pacca anche a novant'anni. Se non cercheremo di realizzare su ognuno di noi grandiose e radicali opere di restauro che ci manterranno sempre «performanti». Se, addirittura, non finiremo col cambiare il nostro cervello con uno nuovo dopo avere trasferito in esso tutti i contenuti immateriali (l'identità psichica, i pensieri, i ricordi) di quello vecchio. Un «download» da brivido. Anche di questo parla il «postumanesimo». Bisogna tornare a chiedersi se il limite non della ricerca, ma dell'applicazione delle scoperte scientifiche, non vada posto proprio nel passaggio da una medicina che cura le nostre malattie a una supermedicina che pretende di renderci invincibili. Questa seconda prospettiva, infatti, è paradossalmente disumana. Allettandoci col miraggio della massima realizzazione delle nostre potenzialità non riconosce alcun valore (se non negativo) alle costituzioni fisiche meno robuste e resistenti e alle fasi della vita in cui le forze si ritirano. Non la malattia, che può essere debellata, ma il malato non è più tollerabile. Non la vecchiaia, che può essere camuffata, ma il vecchio. Per non parlare della morte, svuotata di qualsiasi senso compiuto e incompiuto. Anche se farà ricorso a tutta la scienza del mondo, l'uomo è e resterà sempre un animale che lentamente invecchia e – pur imbottito di formidabili ninnoli tecnologici – prima o poi muore. Lottiamo senza risparmio per rendere meno dolorosa, più lunga e più piacevole possibile la nostra esistenza. Ma alla fine mangiamocelo con filosofia lo yogurt del nostro destino. Prima che diventi insensatamente indigesto.