Tienanmen, la strage che Pechino vuole cancellare dalla memoria

Il 30 giugno dello scorso anno il Comitato permanente del Congresso Nazionale del Popolo, il massimo organo legislativo cinese, aveva approvato all’unanimità una nuova legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong. La legge, commentava qualche giorno dopo Amnesty International, è pericolosamente vaga e ampia in quanto in base alle sue disposizioni praticamente qualsiasi cosa potrebbe essere considerata una minaccia alla «sicurezza nazionale». A poco meno di un anno dall’entrata in vigore di tale legge liberticida che aveva scatenato un’ondata di proteste nell’ex colonia britannica, gli abitanti di Hong Kong schierati a difesa della libertà di espressione e della democrazia, tornano a subire gli effetti del deleterio strumento legislativo ideato da Pechino per mettere a tacere ogni voce critica.
Ieri in effetti il regime cinese ha cercato di impedire le tradizionali veglie che si tengono ogni anno ad Hong Kong in memoria delle vittime di piazza Tienanmen a Pechino (nel giugno del 1989 migliaia di manifestanti che chiedevano aperture democratiche vennero attaccati dall’esercito cinese armato con fucili d’assalto e carri armati) invocando proprio la legge sulla sicurezza nazionale. Le persone che ad Hong Kong si sono ugualmente riunite per ricordare i martiri di piazza Tienanmen sono state messe in guardia dalla polizia che la loro azione poteva essere perseguita in base alla legge sulla sicurezza nazionale. Sono poi scattati i primi arresti. Alle critiche giunte dall’estero alle autorità cinesi per il nuovo atto di repressione nell’ex colonia britannica, Pechino ha risposto con il consueto invito alle autorità straniere a non interferire negli affari interni cinesi. Affari interni che nel caso specifico della strage di piazza Tienanmen rappresentano una macchia vergognosa e indelebile nella storia del colosso asiatico.
Cercare di nascondere o di spingere con la forza nell’oblio un atto di estrema gravità delle autorità dell’epoca che ordinarono il massacro, rende gli attuali dirigenti della classe politica cinese complici di un atto imperdonabile. Ma prima o poi, indipendentemente dalla propria potenza e dalle proprie ambizioni, ogni Paese dovrà fare i conti con il suo passato, in particolare se macchiato dal sangue di tante vittime innocenti. Ossia quelle migliaia di studenti, intellettuali e operai che senza alcuna violenza chiedevano alle autorità locali un futuro migliore, con maggiori diritti e libertà di espressione. Le stesse richieste che lo scorso anno per mesi sono riecheggiate nelle piazze e nelle strade di Hong Kong.
Ma come in tutte le dittature, anche in quella cinese i vertici del potere non amano un confronto costruttivo con le nuove generazioni e più in generale con la popolazione. Ritengono che il loro potere sia legittimato dall’Assemblea nazionale del popolo (ANP), ma l’avvocato per i diritti umani Zhang Xuezhong, lo scorso anno ha inviato una lettera aperta proprio all’ANP sottolineando che i circa tremila delegati sono cooptati dal Partito comunista cinese e non sono eletti dal popolo. Un potere che il Partito vuol tenersi stretto e per difenderlo è sempre pronto ad usare la mannaia.