Tra Cina e USA la sfida è aspra

La guerra dei dazi lanciata lo scorso 2 aprile da Donald Trump è solo apparentemente sconnessa dalle preoccupazioni geopolitiche degli Stati Uniti. In realtà il presidente americano si propone due obiettivi: il primo, come viene costantemente viene ripetuto, è riportare negli Stati Uniti gran parte della produzione industriale statunitense che si è trasferita soprattutto nei Paesi a bassi salari e di raccogliere attraverso queste tasse doganali nuove risorse per limitare la crescita del buco nei conti federali; il secondo obiettivo è isolare la Cina e cercare di indebolire o se possibile far deragliare la crescita del gigante asiatico che è l’unico Paese in grado di sfidare la superpotenza americana.
Alcuni istituti di ricerca americani hanno già messo in dubbio le previsioni di gettito fiscale di questa nuova tassa. Peter Navarro, il «guru» della guerra commerciale di Trump, prevede che essa produrrà 600 miliardi di dollari ogni anno, grazie ad un’aliquota effettiva del 20% sui 3.300 miliardi di importazioni di beni industriali registrati l’anno scorso. Questa previsione non tiene conto che le importazioni diminuiranno a causa dei dazi e quindi ridurranno la base fiscale su cui si regge il ragionamento e in secondo luogo non considera l’inflazione che queste tasse produrranno che avrà l’effetto di deprimere i redditi degli americani e quindi il gettito fiscale. Non considera neppure le conseguenze delle contromisure dei Paesi stranieri che ridurranno che ridurranno l’export statunitense e quindi l’occupazione. Le previsioni degli istituti di ricerca variano tra un gettito supplementare di 290 miliardi l’anno fino a un minimo di 140 miliardi. Quindi i dazi non saranno sufficienti per colmare il deficit pubblico americano che aumenterà ulteriormente quest’anno grazie ai nuovi tagli fiscali voluti da Trump. E quindi la voragine dei conti pubblici che si avvia a superare il 120% del PIL continuerà a pesare sui rendimenti delle obbligazioni statali, già in forte aumento, e su un dollaro in discesa del 9% dall’inizio dell’anno. E il dollaro non è solo la moneta degli Stati Uniti, ma la moneta mondiale su cui si fonda la supremazia americana.
Il secondo obiettivo, non gridato ai quattro venti da Donald Trump, è la Cina. Il confronto tra le due potenze è in corso da anni ed è diventato sempre più duro nel corso del tempo. Si è passati infatti dalla Cina competitore strategico di Obama, ai primi dazi della prima amministrazione Trump, fino al divieto delle esportazioni delle nuove tecnologie americane fino agli attuali dazi. Appare certo che a Washington non si è ancora definita una strategia per affrontare la sfida cinese. Ora la Casa Bianca punta ad isolare commercialmente la Cina dal resto del mondo, imponendo ai Paesi alleati l’impegno a limitare le esportazioni cinesi. Ed è quanto sta accadendo nei negoziati con l’Europa e sicuramente anche con Australia, Corea del Sud e Giappone. L’esito di questa partita è aperto. Sta di fatto che Pechino userà la sua influenza nei Paesi in via di sviluppo per evitare questo accerchiamento. È dunque prevedibile che la sfida con gli Stati Uniti diventerà sempre più aspra, anche perché la Cina ha pressoché colmato il ritardo nelle nuove tecnologie (dall’Intelligenza Artificiale ai chips, ecc.) e pure quella militare, come dimostra la fretta del Pentagono di diminuire la presenza in Europa per concentrarsi nell’Indo Pacifico. Tutto lascia ipotizzare che verrà mancato anche l’obiettivo dell’isolamento economico e commerciale della Cina.