Un raggio di luce tra Etiopia e Eritrea

iL COMMENTO DI ALESSANDRO LETO
Da sinistra: il presidente eritreo Isaias Afwerki con il primo ministro etiope Abiy Ahmed.
Alessandro Leto
17.07.2018 06:00

di ALESSANDRO LETO - Una notizia decisamente positiva ha fatto irruzione in questi giorni nelle cronache della politica internazionale: l'inizio di un vero e proprio negoziato per il trattato di pace fra Etiopia ed Eritrea. Si chiude così la più antica guerra d'Africa dei tempi recenti, cominciata con le contese del 1993 subito dopo la dichiarazione di indipendenza dell'Eritrea, proprio in concomitanza con una delle crisi umanitarie più devastanti cha abbiano mai colpito il Corno d'Africa generata dalla micidiale combinazione di una lunga siccità e della conseguente carestia. E formalmente deflagrata nel 1998 per la disputa sulla città di Badme, piccolo avamposto di confine, ma sostanzialmente riconducibile alle mai sopite contese all'interno dell'etnia dominante degli altipiani, i Tigrini, che avevano espresso la leadership nella guerra d'indipendenza contro Menghistu e che avevano scelto la strada della lotta fratricida, piuttosto che quella della cooperazione fra giovani Stati appena nati e bisognosi di tutto. Talmente poveri da indurre all'epoca alcuni diplomatici a definire quella folle guerra come « una sfida fra calvi per il controllo di un pettine».

La guerra, fieramente condotta sul fronte eritreo dal leader marxista Isaias Afwerki e riccamente condita della consueta retorica, ebbe drammatiche conseguenze su entrambi i fronti interni con decine di migliaia di morti, il prolungamento della carestia aggravata dall'abbandono delle campagne e il progressivo isolamento reciproco. All'Etiopia fu tolto l'accesso al mare e l'Eritrea venne isolata anche dai Paesi un tempo comunisti, nonostante fosse rimasto uno dei pochissimi Stati marxisti dichiarati. Quella folle guerra risultò tragicamente utile per rafforzare internamente il Governo eritreo, che trovò anche nell'odio per il nemico esterno le motivazioni della propria esistenza. Mentre Addis Abeba (pur territorialmente mutilata) recuperava gradualmente, sotto la guida del lungimirante presidente Meles Zenawi, il proprio ruolo in ambito continentale ed ospitava la sede permanente dell'Unione Africana, i fratelli separati di Asmara comiciavano una lunga «traversata del deserto» che sostanzialmente impediva loro di sfruttare le grandi ricchezze nazionali. L'Eritrea è rimasta «congelata» negli ultimi venti anni, ed ha prodotto al proprio popolo un danno strutturale che richiederà tempi lunghi per poter essere recuperato. Eppure è riuscita a rimanere indipendente in un contesto territoriale fra i più complicati del mondo.

Oltre allo stato di guerra permanente con l'Etiopia, il territorio circostante è fra i più turbolenti della storia recente con la dissoluzione della Somalia, il perenne conflitto in Yemen, la secessione del Sud Sudan, la pressione dell'espansione wahabita e le tensioni permanenti lungo il tratto meridionale del Mar Rosso, ancora infestato dai pirati. Ma Afwerki, con lucido cinismo, ha saputo approfittare di queste crisi per valorizzare il porto di Assab concedendolo ai sauditi come base per le operazioni militari in Yemen, affittare alcune isole dello splendido Arcipelago Dalhak agli Emirati Arabi ed al Qatar e cedere concessioni mirate a operatori cinesi e canadesi nel ricco settore minerario. Insomma, mentre l'Etiopia in questi venti anni ha consolidato il proprio ruolo di potenza regionale, l'Eritrea è riuscita a sopravvivere, pur fra indicibili stenti, e soprattutto a consolidare al potere la generazione dell'Indipendenza, fino ad oggi ammantata del proprio duro misticismo marxista. La notizia della «dichiarazione di fine dello stato di guerra» trionfalmente annunciata da entrambe le parti, è giunta come un raggio di luce in un contesto tenebroso e consente di immaginare finalmente nuovi scenari di sviluppo in quella martoriata area delll'Africa. Ad Asmara hanno capito che l'emorragia di giovani disperati che scappano, avrebbe fatto collassare internamente il Paese.

Una buona notizia anche per l'Europa questa, visto che gli eritrei sono fra i più presenti nei flussi di profughi in fuga dall'Africa (molti fra loro hanno richiesto d'asilo proprio in Svizzera). La cautela è d'obbligo in questi casi, ma si può ragionevolmente sperare nel consolidamento del processo di pace, reso possibile forse anche dal fatto che il premier etiope non è tigrino, ma Oromo e quindi sia venuto meno l'odio interetnico. L'accoglienza festosa riservata alla delegazione etiope ad Asmara, l'abbraccio fra i premier Afwerki e Abiy Ahmed e la retorica del ricongiungimento manifestatasi in questi giorni hanno un forte carattere simbolico. E i simboli si sa in politica sono forma, e raramente come in questo caso la forma può divenire sostanza.