Una società in cui tutti si guardano in faccia

In Svizzera mostrare il volto è un dovere da far rispettare a livello nazionale, senza mezze misure o soluzioni cantonali à la carte. Burqa e niqab sono il simbolo di un’ideologia totalitaria, un certo Islam politico, che non deve mettere radici perché sottomette la donna e si scontra con le comuni regole del vivere insieme. È questo, in buona sostanza, il segnale uscito dalle urne con l’approvazione dell’iniziativa popolare contro la dissimulazione del viso. Un sì che sconfessa non solo Governo e Parlamento, ma anche quella parte della classe politica svizzera che ha combattuto l’iniziativa con l’argomento della difesa dei diritti individuali e lo ha banalizzato con l’esiguità del numero di casi reali, senza badare alla preoccupazione per il modo con cui certi cambiamenti vengono percepiti in ampie fasce della popolazione. Il voto di ieri non è forse equiparabile in tutto e per tutto a quello contro la costruzione di minareti, più ostile ai musulmani. Ma esprime e conferma lo stesso disagio verso un modello culturale e religioso considerato in contrasto con i valori della società occidentale. Per questo il nuovo mandato costituzionale potrebbe essere letto anche come un’esortazione all’autorità a mostrare più risolutezza verso l’islamismo. I timori per l’impatto sul turismo hanno avuto a livello nazionale un ruolo marginale. Nei cantoni a vocazione turistica, Berna (dove c’è una forte componente di ospiti di origine araba) e Grigioni, il divieto è stato sì respinto ma di strettissima misura. Quanto al Ticino, il cui voto ha fatto scuola, il risultato è eloquente. A oltre sette anni di distanza dall’approvazione dell’iniziativa popolare, una chiara maggioranza dei votanti si è nuovamente schierata per il divieto di dissimulazione del volto, a dimostrazione che non ci sono problemi d’applicazione. Qui sta il punto. Non si tratta di una questione di numeri. Il fatto che solo una trentina di donne indossino il niqab in Svizzera, per di più di loro iniziativa, conta poco. Bisogna invece creare le basi per far rispettare esigenze minime del vivere insieme, riconosciute dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza che aveva dato via libera alla legge francese. Un atto maturato dopo un lungo confronto interno (con protagonisti anche personaggi politici di sinistra) e al quale si erano ispirati prima Giorgio Ghiringhelli in Ticino e poi gli iniziativisti a livello federale. La Svizzera deve restare una società aperta, in cui la gente si guarda in faccia e non sono ammesse, già a livello di Carta fondamentale, forme di sottomissione della donna. È legittimo fissare dei paletti per anticipare certe tendenze, senza attendere che un domani – si parla ovviamente di medio-lungo termine – l’evoluzione della realtà ci imponga di correre ai ripari a situazione ormai compromessa. Non a caso l’iniziativa ha avuto successo anche in quasi tutta la Romandia (Ginevra esclusa), sicuramente influenzata dalla situazione della Francia, dove il problema dell’islamismo politico si presenta in termini più acuti. Anche in Svizzera, tra finanziamenti delle moschee da parte di Stati esteri e mancata integrazione, prendono piede fenomeni che destano preoccupazione. Per Governo e Parlamento quello contro la legge sull’identità elettronica è stato un verdetto pesante e senza appello. A sorprendere non è l’esito negativo, già previsto dai sondaggi, ma la proporzione del risultato. Quasi due votanti su tre (e tutti i Cantoni) hanno respinto il progetto uscito con una solida maggioranza dalle Camere e che aveva richiesto diversi anni di preparazione. Segno evidente che alle obiezioni e ai timori emersi durante la campagna referendaria non è stata data una risposta convincente. Per avanzare con successo sul terreno insidioso della digitalizzazione serve fiducia. Berna non è riuscita a infonderla, portando argomenti che alla prova dei fatti non sono riusciti a sciogliere i dubbi dell’elettorato; dubbi riguardanti la sicurezza e la tutela dei dati personali, la necessità stessa di avere un’identità elettronica riconosciuta dallo Stato e il ruolo dei privati in un settore ritenuto di esclusiva competenza statale. Nulla comunque è perduto visto che quasi tutti concordano per presentare un’alternativa in termini ragionevolmente rapidi. Le obiezioni riguardano i mezzi, non i fini. Una situazione simile si era già presentata nel 2017 dopo il fallimento della riforma fiscale delle imprese. Se la volontà c’è, si trovano anche le soluzioni. Scampato pericolo invece per l’accordo di libero scambio con l’Indonesia. La maggioranza non entusiasmante ha comunque evidenziato l’importanza di considerare i criteri di sostenibilità in vista di nuove intese commerciali. È bene prenderne nota.