Fatti e misfatti di un anno sciupato

Il 2025 non passerà alla storia come l’anno delle grandi riforme. Né come quello delle scelte coraggiose. Si ricorderà, più modestamente, come l’anno dell’arrocchino, diminutivo di nome e di fatto, specchio fedele della politichetta che ci è toccato osservare per dodici inconcludenti mesi. Nessuno si offenda, di persone valide ve ne sono sia in Governo, che in Parlamento, come pure alla testa dei partiti. Ma è l’amalgama che non funziona, che non produce, anzi, che svilisce senza apparente speranza. Gli equilibrismi interdipartimentali tra i due consiglieri di Stato leghisti, con la benedizione del resto del Consiglio di Stato, ci mostrano quanto di più inconcludente si potesse immaginare. Un’invenzione degna del teatrino dell’assurdo. Ma staremo a vedere, il tempo è sempre galantuomo e, nel 2026, a campagna elettorale lanciata, un bilancio s’imporrà.
E dovrà essere oggettivo, finanche impietoso per ogni membro dell’Esecutivo e per il Legislativo nel suo insieme. Il tutto prima che inizi la solita girandola di belle parole e promesse acchiappavoti. Ma siamo persuasi che l’elettore sia sempre meno credulone e manipolabile. Bensì lucido e con la memoria lunga. Nell’anno ormai alle spalle la politica ha giocato la partita nella propria metà campo, con lo sguardo fisso sul tabellone dei consensi e un orecchio sempre teso ai malumori per trasformarli in promesse da marinaio. Il risultato? Un Governo debole, una politica litigiosa e un Cantone che ha perso tempo prezioso. I cinque nella stanza dei bottoni hanno agito con l’atteggiamento di chi amministra una tregua, non di chi guida un progetto. Collegialità interpretata come prudenza estrema e prudenza trasformata in immobilismo. Così quando le decisioni diventano ostaggio degli equilibri interni, la politica smette di essere direzione e diventa gestione insipida. L’arrocchino è servito esattamente a questo: proteggere il perimetro, senza allargare gli orizzonti. Cambiare assetti, rimescolare competenze, spostare dossier ha dato l’illusione del movimento. Ma è stato un movimento circolare. Nessun vero cambio di passo. Nessuna assunzione chiara di responsabilità. Nessuna narrazione politica forte e capace di spiegare ai cittadini dove si voleva andare. E quando il Governo non guida, il Parlamento si sente autorizzato a litigare e tatticheggiare. Il Gran Consiglio nel 2025 è stato un’arena più che un’assemblea legislativa. Scontri frequenti, alleanze occasionali, voti risolti per stanchezza più che per convinzione. Una politica che vive di (ri)posizionamenti continui e non di costruzione.
Il preventivo è diventato il simbolo di questo clima: non uno strumento politico, ma un campo di battaglia. Si è discusso di cifre senza affrontare davvero le priorità. Si è trovata un’alchimia tra favorevoli, contrari e astenuti. Questa è solo sopravvivenza amministrativa. Nella speranza, beninteso, che una volta di più si compia il miracolo della Banca Nazionale. Altrimenti tutto crolla. Come il sistema sanitario, nella perenne illusione che iniettando più sussidi darà maggiore benessere ai cittadini. Tanto qualcuno provvederà a colmare i buchi. È quanto pensano alcuni benpensanti cosiddetti «nostrani» che leggendo l’analisi del BAK non stanno più nella pelle e non credono ai propri occhi con la lente d’ingrandimento «spendi e spandi». In sostanza si chiedono come spendere di più e non come ridurre alcuni svantaggi che determinano queste maggiori uscite. Capitani coraggiosi, verrebbe da dire.
Il 2026 si apre senza illusioni. I margini sono stretti, le risorse limitate, la pazienza dei cittadini al limite. Serviranno scelte politiche nette. Primo: basta governanti che si auto-neutralizzano. La collegialità non può essere un alibi. Serve leadership politica, visibile e determinata. Anche a costo di tensioni. Secondo: meno tattica, più responsabilità. In Parlamento come in Governo. La politica litigiosa non è sinonimo di pluralismo: spesso è solo incapacità di costruire. Terzo: dire la verità sulla sanità e sui conti pubblici. Senza verità non c’è consenso duraturo. Senza consenso non c’è riforma possibile. Quarto: scegliere poche priorità e difenderle. Non tutto può essere urgente e finanziato. Governare significa anche scegliere e rinunciare. Il 2025 ha mostrato cosa succede quando la politica gioca solo in difesa: si muove molto, ma avanza poco. Il 2026 dirà se il Ticino ha ancora la forza di fare qualche passo in avanti. Non con gli arrocchini. Con le decisioni coraggiose e responsabili. L’anno che verrà potrà essere migliore, ma a una condizione: che chi governa accetti finalmente che la realtà non si sposta con le pedine. Si affronta. Senza illusioni. Con disciplina. E con quel minimo di coraggio che, in politica, è sempre merce rara ma necessaria ora più che mai.

