Femminicidio, se per Milei è un privilegio di genere

Perché la parola «femminicidio» fa tanta paura? Perché la si risparmia, quasi a voler proteggere l’autore del delitto, il maschio sopravvissuto (o meno), da un’etichetta che vada oltre quella di «omicida»? Perché Javier Milei vuole sopprimerla con la scusa del «wokismo»? Eppure in Argentina nel solo 2023 sono stati commessi 322 femminicidi, ovvero omicidi con una base di misoginia, commessi da uomini su donne in quanto donne. Una cifra che supera quella del 2022 (242) e persino quella del 2020 (295), l’anno della pandemia. Una crescita costante, che ci fa riflettere sull’importanza di dare un nome a questo fenomeno e sull’urgenza poi di utilizzarlo, questo nome, nel codice penale. Ma secondo Milei «la violenza non ha genere» e l’espressione stessa - con tutto ciò che ne consegue in termini penali - «crea privilegi». Urla, via social, ma non solo: «Nessuna vita vale più di un’altra».
Milei fa un collegamento esplicito tra «femminicidio» e «femminismo». Vede nelle conquiste femminili una sconfitta dell’equilibrio tra generi, un’ingiustizia da regolare a suo modo, mostrando i muscoli. Ma non c’è nulla di davvero sorprendente, nelle sue parole, nella prova dei fatti. Subito, già dalle sue prime settimane da presidente argentino, aveva dimostrato di voler perseguire le politiche femministe, dichiarando la sua volontà di modificare leggi - su tutte la Legge Micaela, relativa alla formazione obbligatoria in materia di violenza di genere per tutte le persone con un ruolo pubblico nello Stato -, negando nelle discussioni pubbliche il divario salariale ed eliminando il Ministero delle donne. «È un’ipocrisia progressista». Al WEF ha messo tutto nello stesso calderone: femminismo sì, diversità, inclusione, uguaglianza, immigrazione, ambientalismo, ideologia di genere. Tutto, dimostrando una rabbia polarizzante.
Tornando al femminicidio, Milei non cita il fatto che le donne uccise spesso sono vittime della violenza omicida maschile all’interno della sfera privata. Ma tra i dati argentini, in questo caso per parte del 2024 (fino a metà novembre), si parla del 66% delle vittime di femminicidio uccise in casa; e nell’84% dei casi è stata accertata una precedente relazione tra vittima e carnefice. Muoiono, uccisi, più uomini che donne, è vero. Ma solo nell’11% dei casi - in tutto il mondo - gli uomini vengono uccisi all’interno della sfera privata. La differenza è sostanziale. Esiste un modo specifico di esercitare la violenza contro le donne. Sempre nel 2024, in Svizzera si sono registrati 18 femminicidi. E nel 2023 le autorità hanno contato 54 reati di violenza domestica al giorno, con un +19,5% di lesioni gravi rispetto all’anno precedente.
Eppure, lo scorso novembre, le Nazioni Unite in un loro rapporto facevano notare che, nel 2023, «solo 37 Paesi hanno segnalato dati sui femminicidi commessi da partner e da familiari, un netto calo rispetto ai 75 Paesi del 2020». Avvertono: «Questa lacuna nei dati ostacola gli sforzi per monitorare le tendenze e far rispettare la responsabilità per questi crimini». Una disattenzione allarmante, che diventa assenza di fronte alle proprie responsabilità. L’ONU parla apertamente di «epidemia di violenza contro le donne e le ragazze», un’epidemia che «umilia l’umanità».
E allora la distorsione non è, al contrario di quel che asserisce Milei, quella provocata dal femminismo, bensì quella che non trova argini penali e culturali. Gli interessi del presidente argentino, in questo senso, portano a una regressione della realtà, a una distopia che nulla dovrebbe avere a che vedere con la dialettica politica. E non è una questione di ideologie, di destra e sinistra, e neppure di wokismo in questo caso, ma di pura e semplice giustizia.