L'editoriale

Gli appelli per Gaza e il tempo che stringe

Il Consiglio federale non dovrebbe avere remore a intervenire in modo più deciso per salvaguardare, come la Confederazione fa in altri Paesi nel mondo, la vita di decine di migliaia di famiglie palestinesi
Paride Pelli
05.06.2025 06:00

Ad ogni latitudine si stanno moltiplicando gli appelli delle popolazioni ai propri Governi affinché questi ultimi intervengano, attraverso decise azioni politiche e umanitarie, nell’assolutamente tragica situazione della Striscia di Gaza. Sta accadendo anche in Svizzera. Domenica scorsa cinquantacinque ex ambasciatori del DFAE hanno diffuso una lettera aperta al consigliere federale Ignazio Cassis, proponendo una serie di precise misure da attuare affinché la Confederazione faccia sentire la propria voce con toni più fermi e cerchi in tutti i modi di mettere un freno alle sofferenze dei civili palestinesi. Un altro appello dello stesso tenore, depositato lunedì alla Cancelleria federale, riporta in calce 130 mila firme di cittadini svizzeri, raccolte in poco più di una settimana. Una mobilitazione simile, in molti casi più estesa, si registra anche in altri Paesi europei, a partire dalla Spagna fino all’Italia e alla Francia, nonché in Asia e in Sudamerica. Il tema è molto dibattuto e scatena ogni giorno feroci discussioni, quasi sempre per ragioni ingannevoli dovute alla straordinaria polarizzazione politica e culturale che sta dilagando in Occidente, complici i social media e, purtroppo, non poche testate giornalistiche, e non solo sulla questione di Gaza. Un rapido quadro della situazione. C’è una fazione, nella sostanza filo-israeliana, convinta che sostenere iniziative umanitarie realmente indipendenti a favore della popolazione della Striscia significhi mettere i bastoni tra le ruote, metaforicamente, a Israele e alla sua legittima guerra contro i terroristi di Hamas, iniziata dopo il massacro del 7 ottobre 2023. Dunque sarebbe meglio lasciare l’incombenza, come sta accadendo, a Israele e ai contractors USA, che però adottano una distribuzione «strategica» non priva di scopi militari, con annesse vittime. La fazione opposta, invece, reputa che i palestinesi vadano aiutati in tutti i modi a «resistere» all’invasore e a rimanere nei propri territori, per poi fondare, nelle speranze più ottimiste, un proprio Stato. In altre parole, Israele va «forzato» con strumenti diplomatici ed economici a rispettare il diritto internazionale, a fare entrare nella Striscia ogni tipo di aiuti, e a interrompere l’invasione, magari ritirandosi in buon ordine, in attesa che Hamas liberi gli ultimi ostaggi. Si tratta, in tutta evidenza, di due posizioni ampiamente politicizzate che immobilizzano ogni possibilità di reale e - vogliamo sottolinearlo - necessario intervento da parte di terzi. Spieghiamoci meglio. Dal punto di vista del conflitto, le ragioni di Israele sono diventate purtroppo sempre più insondabili. Un paio di settimane fa, l’ex primo ministro Ehud Olmert ha scritto che il Governo del suo Paese «sta conducendo al momento una guerra senza scopo, senza obiettivi o una chiara pianificazione, e con nessuna possibilità di successo» e che «le vittime inutili stanno raggiungendo proporzioni mostruose». Non ci addentriamo nelle dinamiche di quella che molti definiscono «la guerra privata» del premier Netanyahu e del suo Esecutivo. Possiamo constatare anche noi, però, che la domanda sul perché questo conflitto stia proseguendo sempre più sanguinoso ha risposte al momento poco convincenti.

In una situazione simile, permettere l’arrivo di aiuti indipendenti nella Striscia non significa schierarsi contro Israele e con Hamas. Significa semplicemente cercare di aiutare quante più persone innocenti possibile. Da questo punto di vista ogni appello in tal senso è da accogliere senza riserve. Hanno ragione gli ex ambasciatori del DFAE: il Consiglio federale non dovrebbe avere remore a intervenire in modo più deciso per salvaguardare, come la Confederazione fa in altri Paesi nel mondo, la vita di decine di migliaia di famiglie palestinesi. Essere neutrali, commenterebbe lo stesso Cassis, non significa essere indifferenti. Intervenire con più decisione, aggiungiamo noi, non significa necessariamente schierarsi. Bisognerà trovare, ça va sans dire, le giuste modalità. Discorso diverso su altre richieste contenute nei vari appelli. Alcuni chiedono esplicitamente di boicottare i rapporti culturali e accademici con Israele, di sospendere le cooperazioni scientifiche e di intelligence, di segnalare la provenienza di prodotti commerciali israeliani, cioè di isolare sostanzialmente lo Stato ebraico. Soluzioni estremiste, radicali, pericolose, anche guardando al futuro, quando questa guerra sarà finita e il Governo Netanyahu sarà sostituito. Attuarle significa dare una spinta al montante antisemitismo e in un certo senso anche all’ostilità dei terroristi verso Israele. La situazione resta però tesissima. Dall’alto della loro secolare diplomazia, Europa e Svizzera sono però tenute a elaborare una visione non conflittuale. Non c’è tempo da perdere.