Green deal, un rinvio che somiglia a una rinuncia

Il grande progetto di riconversione industriale europeo, noto come Green Deal, non è stato formalmente cancellato, ma è stato svuotato. Ciò che era nato come il manifesto di una rivoluzione ecologica senza rinunciare alla produzione si è trasformato in un esercizio di equilibrio politico: meno ambizione, più prudenza. Le istituzioni europee nei giorni scorsi hanno parlato di «realismo industriale», ma dietro alle parole affiora una resa silenziosa alle pressioni economiche e sociali di un continente stanco. E in particolare ha ascoltato il grido di lamento dell’industria tedesca che da tempo non è più la locomotiva d’Europa. Il simbolo di questa svolta è il pacchetto Omnibus, approvato dal Parlamento Europeo la scorsa settimana. Con un colpo di spugna, Bruxelles ha ridotto drasticamente gli obblighi di rendicontazione ambientale per circa l’80% delle imprese, ridimensionando due pilastri del Green Deal originario, la Corporate Sustainability Reporting Directive e la Due Diligence Directive. L’obiettivo ufficiale è alleggerire la burocrazia, ma il risultato è un ritorno all’autocertificazione morale: meno vincoli per le aziende, meno trasparenza per i cittadini. Nel frattempo, il settore che più aveva incarnato la transizione - l’automotive - ha riscritto la propria rotta. L’Unione ha cancellato il divieto di vendita dei motori termici previsto per il 2035, aprendo la porta ai biocarburanti e agli e-fuels. La misura è stata presentata come una prova di flessibilità, ma riflette un ripiegamento strategico.
L’Europa non guida più la rivoluzione tecnologica: la rincorre, preoccupata di non farsi travolgere dalla Cina e dagli Stati Uniti. La prima ha puntato in modo deciso sulle auto elettriche, diventando di fatto il primo produttore al mondo di tali veicoli e comprimendo la concorrenza europea. È riuscita a farlo grazie a un sistema industriale che si muove come un solo uomo, che ha pochi vincoli ambientali e sociali. E può farlo soprattutto grazie al fatto di avere a portata di mano le materie prime fondamentali (le cosiddette terre rare) per affrontare la transizione energetica. Anche il calendario della sostenibilità è slittato. L’entrata in vigore del regolamento contro la deforestazione, prevista per il 2025, è stata rinviata di un anno. Un rinvio tecnico, si dice, ma ogni rinvio pesa: somiglia a un passo indietro travestito da prudenza. Resta formale l’obiettivo del 90% di riduzione delle emissioni entro il 2040 e la cornice della neutralità climatica al 2050, ma la politica ha smesso di crederci davvero. Il nuovo Clean Industrial Deal prova a compensare, spostando l’attenzione sulla decarbonizzazione dell’industria pesante. Tuttavia, dietro la retorica del «nuovo equilibrio» si intravede l’ammissione che la transizione ecologica non è più una priorità assoluta: è una variabile condizionata dalla crescita. E dalle contingenze. Come continuare, sennò, a giustificare il progetto definito Rearm Europe che di ecologico e sostenibile non ha nemmeno il nome? L’Unione europea non nega la sfida climatica, ma semplicemente la rinvia. Dalla stagione del pionierismo normativo si passa a quella della cautela industriale. È una correzione di rotta probabilmente necessaria. Eppure, non tutto è perduto: dietro la revisione degli obiettivi si intravede la consapevolezza che la transizione verde non può essere solo ideologia, ma economia, lavoro, infrastrutture e ricerca.

