I cittadini e il Palazzo che parla da solo

C’è un rumore di fondo che in Ticino ormai copre tutti gli altri: è lo scricchiolio della fiducia. Non è un crollo improvviso, è un logorio costante. E quando la fiducia si consuma, la politica non perde solo consensi: perde senso. Oggi in Gran Consiglio prende il via la discussione fiume sul preventivo dell’anno che verrà. Una sorta di rituale prenatalizio che si estenderà per 3-4 giorni di intenso e acceso dibattito a Palazzo delle Orsoline, spezzato da un altro rito: il brindisi con panettonata per i parlamentari. Lo spettacolo in aula, invero poco edificante, è garantito e le premesse sono pessime. Non inganni il fatto che da uno spezzatino di quattro rapporti sul tavolo, si sia passati a tre documenti per l’abbraccio d’interesse raggiunto in zona Cesarini tra Lega e UDC. La sostanza non cambia: nessuna componente del trio ha i numeri per costituire una maggioranza. A pesare, e di sostanza, potrebbero essere più le astensioni che i «sì» o i «no». Astensioni tattiche che suonerebbero come avallo alla sintesi raggiunta dai partiti di mezzo, quel PLR e Centro uniti per le feste. Poi, nel 2026 e con il profumo di elezioni che si farà più intenso, si vedrà. Ma questo vale un po’ per tutti i partiti. I fronti citati e quello che vede uniti per idee convergenti e necessità nei numeri elettorali PS e Verdi, per restare granitici come dichiarato nelle intenzioni degli ultimi giorni, dovranno superare la più sdrucciolevole delle tentazioni: la buccia di banana degli emendamenti, da sempre confezionati per modificare forma e sostanza delle posizioni originarie messe nero su bianco dai partiti. Un tempo erano strumento dei partitini, non ammessi al banchetto, per fare rumore e acquisire una fetta di notorietà. Oggi sono pure l’arma a doppio taglio usata dalle forze di Governo che a parole si dicono convinte del proprio rapporto, ma nei fatti inseguono quel fine che nel testo originale non osavano mettere nero su bianco.
Mai come in questa fase storica si assiste a uno scollamento tra la politica e il Paese reale. Un tempo c’era il tavolo di sasso, sul quale tutto veniva deciso e fatto digerire o subire. Oggi si dice di essere attenti a chi non siede nelle stanze della politica, li si considera, si pensa ai cittadini e alle loro molteplici difficoltà, ma sull’azione concreta ci sentiamo di nutrire riserve. Vien da dire che l’ipocrisia collettiva è smascherata: se davvero tutti pensassero e agissero per il bene dei ticinesi comuni, perché non ci si dimostra davvero capaci di raggiungere una sintesi senza dare vita a sceneggiate? Il Paese reale, quello che fa i conti con premi di cassa malati che mordono, affitti che salgono, salari che non inseguono i prezzi in ascesa, traffico che ruba tempo e nervi, guarda verso Bellinzona e spesso vede un teatrino dove i protagonisti recitano come se la platea fosse obbligata a restare seduta, pagare il biglietto e pure applaudire. Il paradosso è che tutti, a turno, invocano il popolo. Lo citano come un talismano, lo sventolano come un lasciapassare. Poi, quando il popolo firma, vota e decide, succede la cosa più ticinese del mondo: la realtà viene rimandata a data da destinarsi. Ma perché prima si promette e poi si scopre, come per magia, che i conti non tornano? Non c’è magia: era realtà ieri e lo è pure oggi. Basta che non la si trasformi in un grande inganno. La storia delle iniziative sulle casse malati è sotto gli occhi di tutti.
Lo scollamento è dunque servito. Il Palazzo ragiona per esercizi, preventivi e calendari elettorali. Il Paese reale ragiona per bollette, scadenze, fine mese e problemi concreti e quotidiani. Due orologi diversi. E quando gli orologi non coincidono, la politica finisce per sembrare una lingua indecifrabile. L’arte della sfiducia trova la sua massima espressione nel confronto tra Governo, Parlamento e all’interno di quest’ultimo per effetto della frammentazione partitica. Così il preventivo, anno dopo anno, diventa il rito della disconnessione, che nel 2025 ha visto protagonista anche il Consiglio di Stato con la ridicola vicenda dell’arrocchino in salsa leghista istituzionalizzato dal collegio governativo. Anche chi non vive a pane e politica l’ha visto: si tratta di poltrone, competenze ed equilibri interni. Io non schiaccio i piedi a te e tu farai lo stesso con me. E poi la reprimenda ipocrita con «disappunto» ai due leghisti per le modalità comunicative, faceva parte del copione. Il Paese reale non chiede miracoli. Chiede priorità, chiarezza, coerenza e soluzioni. Chiede che, quando si dice «serve rigore», lo si applichi anche alle proprie liturgie; quando si dice «serve rispetto», lo si pratichi anche tra istituzioni; quando si dice «serve ascolto», lo si misuri sulle scelte non sulle parole. Perché il Paese reale, quello che la politica evoca di continuo, ha una caratteristica fastidiosa: non aspetta. E non dimentica.

