L'editoriale

I due volti di Giorgia Meloni

L’Italia non corre alcun pericolo di un ritorno del Fascismo, è una democrazia con le sue fragilità ma con tutti i pesi e i contrappesi necessari
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
26.09.2022 19:00

Ha vinto nettamente la destra di Giorgia Meloni. In una coalizione nella quale la Lega di Matteo Salvini è stata duramente sconfitta e Forza Italia di Silvio Berlusconi ha solo salvato la pelle. Pur credendosi rivestiti di un ruolo decisivo, saranno solo junior partner di un governo a trazione Fratelli d’Italia. L’esito del voto era scontato. Forse una delle ragioni della scarsa affluenza. Sono mancati, rispetto al 2018, quasi cinque milioni di voti. Il dato più inquietante, per una democrazia, è questo. Non è l’affermazione di un partito che conserva nel proprio simbolo la fiamma del post fascista Movimento sociale italiano (MSI). Durante la prima Repubblica l’MSI fu sempre tenuto fuori da quello che si definiva l’arco costituzionale. La fiamma missina è l’unica sopravvissuta dei tanti simboli politici del Novecento. Giorgia Meloni però è nata nel 1977. I conti con la storia il suo movimento non li ha fatti tutti, è vero. Ma nello schierarsi con l’Occidente, nella guerra in Ucraina, non ha avuto nessuna delle ambiguità dei suoi partner.

L’Italia non corre alcun pericolo di un ritorno del Fascismo. È una democrazia con le sue fragilità ma con tutti i pesi e i contrappesi necessari. E non è la prima a essere investita da un’ondata nazionalista e populista. Il vero rischio che corre – e di questo è consapevole la stessa vincitrice – è di scivolare in una costosa irrilevanza internazionale e soprattutto europea. Giorgia Meloni è alla testa dei conservatori e riformisti europei (ECR). Va a braccetto con i nazionalisti spagnoli di Vox, con l’ungherese Orban. Nella foga dei comizi ha avvertito i partner europei che con un governo di destra sarebbe finita la loro «pacchia» di avere a che fare con un Paese debole nella difesa dei propri interessi. Ma, nel momento in cui si troverà a guidare un governo, non potrà ignorare che l’Italia – nella crisi energetica e sociale – è la maggiore beneficiaria dei sussidi e dei prestiti europei del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). La Banca centrale europea continua ad acquistare i titoli dell’enorme debito pubblico italiano. E se dovesse passare la proposta di riforma costituzionale, con lei prima firmataria, che nega il primato del diritto europeo, l’Italia sarebbe sostanzialmente fuori dall’Unione.

«È il tempo della responsabilità» ha detto Giorgia Meloni commentando il voto. Davanti a sé ha due strade. Un salutare bagno di realtà e molto buon senso potrebbero tradursi nella scelta, soprattutto per i ministeri economici, di personalità non eccentriche al disegno europeo. Essere critici e combattivi con Bruxelles è un conto. Negare una tradizione consolidatasi nel Dopoguerra, persino suicida. L’Unione ha tutto l’interesse alla maturazione di una forza conservatrice e non estremista. La seconda opzione,  improbabile, è quella che l’eventuale governo Meloni segua un crinale «ungherese», sovranista, identitario e di rottura che però Forza Italia per prima non potrebbe mai accettare.

Raramente una legislatura italiana è cominciata con un risultato più chiaro e la prospettiva di un governo stabile. Meloni è paziente e tenace. Altrimenti non avrebbe costruito e portato al successo un movimento che nel 2018 aveva solo il 4 per cento. Sa che il voto in Italia è volatile. Lo si guadagna e lo si perde in fretta. Renzi, Salvini e Di Maio insegnano. Quest’ultimo, attuale ministro degli Esteri, non rientra in Parlamento battuto da un ministro (Sergio Costa) che scelse lui mentre i Cinque Stelle con Giuseppe Conte – che lui volle premier – ottengono un ottimo risultato. Sommando i loro voti a quelli dello sconfitto PD di Enrico Letta (ormai dimissionario) e al «terzo polo» di Carlo Calenda e Matteo Renzi, un’ipotetica coalizione di centrosinistra avrebbe vinto. Ma non ci hanno nemmeno provato.