I nuovi rapporti di forza a destra

I ticinesi - poco meno di uno su due - hanno votato per la 52. legislatura dell’Assemblea federale e le sorprese non sono state poche. Anche nel nostro cantone è infatti accaduto qualcosa che forse era nell’aria ma che ieri si è imposto con la nettezza dei numeri e dei dati statistici: ci riferiamo all’exploit della rampante UDC, che per la prima volta ha scavalcato la Lega dei ticinesi all’interno della congiunzione di destra riuscendo nell’impresa di far eleggere, oltre a Piero Marchesi, un secondo rappresentante democentrista in Consiglio nazionale, Paolo Pamini, che si è accaparrato il seggio lasciato libero da Marco Romano (Il Centro) per un paio di centinaia di schede. Lega che subisce anche un netto arretramento percentuale rispetto al 2019 dopo i forti scricchiolii già avvertiti nelle Cantonali dello scorso aprile. Certo, è doveroso premettere che stiamo parlando di elezioni federali: i cittadini sono andati a votare idee e programmi politici che riguarderanno in primis la Confederazione, seppure con al centro il proprio cantone di appartenenza; ciò non toglie che l’avanzata dell’UDC sia una segnale che, pure sul nostro territorio, la tendenza politica nazionale ed europea abbia fatto breccia.
I temi che hanno spinto i ticinesi in questa direzione sono – ça va sans dire - quelli classici dell’UDC: il problema dell’immigrazione, di cui in particolare il nostro cantone sente tutta la pressione, con un confine sud sempre più «caldo», la gestione delle domande di asilo, la sicurezza sociale, la neutralità della Confederazione, in un momento in cui i conflitti bellici sono tornati prepotentemente sulla prime pagine dei giornali, e non da ultimo l’esigenza di una transizione ecologica moderata. Su tali questioni, la comunicazione elettorale dell’UDC è stata diretta, come sempre senza troppi peli sulla lingua - per usare un eufemismo - e ha saputo trasmettere una volontà di decisionismo e una chiarezza di vedute che hanno infine convinto gli elettori, sottraendoli ad altri partiti contigui per idee e programmi. Aggiungiamo che anche durante la pandemia l’UDC è andata spesso - e compatta - controcorrente, approfittando di una certa confusione in seno agli altri partiti sui diritti e sulle libertà personali. A posteriori, una scelta rivelatasi azzeccata. I nuovi rapporti di forza a destra saranno un tema di discussione anche in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Certamente, anche in previsione delle elezioni comunali del 2024 - il vero banco di prova per il movimento di Via Monte Boglia - in casa Lega dovrà aprirsi una profonda riflessione su una erosione continua di voti che non può non preoccupare.
E gli altri? Il Centro è perfino avanzato di pochissimo, ma non abbastanza per salvare il secondo seggio – con Giorgio Fonio estromesso proprio sul filo di lana – così come il PLR, che dopo un inizio di spoglio titubante, ha confermato saldamente Alex Farinelli e vede la new entry Simone Gianini, un po’ più di un semplice outsider, prevalere sulla favorita Alessandra Gianella (che potrebbe però rientrare in gioco dopo l’esito del secondo turno per l’elezione del Consiglio degli Stati, così come lo stesso Fonio).
Suscita riflessioni anche l’arretramento dei Verdi ticinesi. Se nel 2019 l’ondata verde – uno tsunami, l’avevamo definito nel titolo di prima pagina - aveva fatto loro guadagnare uno storico seggio al Consiglio nazionale, a questo giro è andata diversamente, sebbene Greta Gysin sia stata comodamente confermata, al pari del socialista uscente, Bruno Storni. Nonostante il loro programma fosse di assoluta attualità, con una sensibilità climatica e ambientale ormai dilagante, al Consiglio nazionale i Verdi hanno perso per strada un’importante fetta del loro elettorato. Certi estremismi nella comunicazione - molto ansiogena - dei loro temi, soprattutto nell’ultimo anno, già carico di suo di (altri) problemi, hanno fatto migrare i voti verso altre liste.
E veniamo allora alla corsa per gli Stati, con l’UDC che ha spinto subito in vetta Marco Chiesa, vero vincitore di giornata anche in virtù del suo ruolo di presidente nazionale: il «senatore» uscente ha fatto corsa a sé, staccando sia il centrista Fabio Regazzi (secondo sulla griglia di partenza in vista del 19 novembre, data del decisivo secondo turno) sia Alex Farinelli. Saranno presumibilmente (solo) loro tre a giocarsi le due poltrone disponibili, con Chiesa che dopo il brillante risultato di ieri gode dei favori del pronostico, a patto che i leghisti non gli voltino le spalle sul più bello. Saranno in lizza comunque, ma con scarse possibilità, anche Gysin (più votata di Storni nell’alleanza di sinistra) e la sorprendente Amalia Mirante, con il suo Avanti con Ticino&Lavoro che si conferma una realtà nel nuovo panorama politico.
Infine, al di là dei risultati dei singoli partiti, la delegazione ticinese avrà innanzitutto il compito di essere unita. Si va nella capitale federale innanzitutto per rappresentare il Ticino e per portare soluzioni ai problemi di tutto il cantone. Abbiamo visto negli ultimi anni come Berna abbia un peso – e sia detto con una certa nostalgia per un federalismo più puntuale - sempre maggiore su questioni che ci toccano da vicino in un mondo sempre più «glocalizzato». E concludiamo, davvero stavolta, con il tasso di partecipazione che, malgrado le cassandre della vigilia, si è attestato al 48%, con una tenuta sostanziale della partecipazione rispetto a quattro anni fa. La tanto temuta astensione, insomma, non si è palesata (nel 2019 si registrò invece un -5%): certo, non è un gran numero, per una democrazia in salute, ma è una base su cui si può tentare un recupero, magari attraverso nuove soluzioni più al passo con i tempi per esprimere il proprio voto.
