L'editoriale

Il mare aperto e il porto sicuro

Stop all'aumento dei dipendenti pubblici? I pro e i contro di una proposta destinata a fare discutere e dividere
Gianni Righinetti
03.10.2024 06:00

Due sono le possibili chiavi di lettura dell’iniziativa popolare «Stop all’aumento dei dipendenti cantonali». Una a carattere vendicativo e rancoroso nei confronti delle persone assunte e delle regole non scritte della politica consociativa che hanno condotto l’amministrazione cantonale a gonfiarsi in maniera notevole nel corso degli anni. Una crescita da attribuire a chi per decenni ha tirato giacche e giacchette con lo scopo di fare assumere, gonfiando i servizi e dando vita a nuovi rami politico-amministrativi. Oppure alla base della raccolta delle firme potrebbe esserci un calcolo, sulla base dell’inesorabile crescita del costo per il personale che, stando al Piano finanziario con orizzonte 2028, non conosce tregua alcuna. E, in aggiunta, citiamo lo studio Idheap che ci mette spalle al muro. Nell’analisi di dieci criteri, il Ticino è nove volte oltre la media intercantonale e nell’Amministrazione generale cantonale è in avanti del 33%. C’è poi un secondo rilevamento statistico, lo studio IWP che descrive negli anni 2008-2021 un aumento maggiore del 25,3% dei dipendenti pubblici rispetto agli altri Cantoni. Mettiamo pure di fare la tara perché non sempre tutti i paragoni risultano perfettamente azzeccati, ma non può essere che tra tante variabili il Ticino si trovi sempre nella posizione citata. Crediamo si possa definire innegabile l’esistenza da parte di alcuni attori del mondo della politica di quello che potremmo descrivere come un atteggiamento dissacrante sul conformismo dell’impiego pubblico ritenuto da altri come intoccabile. Il limite di queste operazioni sta nel rischio di scivolare nella rigida e fredda contabilità. Ci troviamo di fronte una delle variabili che rende il nostro Ticino incapace. Incapace di (auto)regolarsi con realismo, ingolosito nel farsi fagocitare, perché assumere e ingigantire i servizi rende belli, generosi e, qualcuno lo ha forse creduto, pure lungimiranti. Ma il difetto sta sempre nel manico, lo stesso che ora si trova investito dagli effetti nefasti della politica dell’assunzione e della nomina facile. Prendersela con i cosiddetti «statali» è strumentale, come lo è altrettanto accanirsi sui frontalieri. Sono le condizioni quadro che hanno dato vita alla realtà odierna, gli assunti non hanno alcuna colpa. Beneficiano di quanto viene servito loro nel piatto. Né più, né meno.

La squadra che sostiene lo «stop» è composta in gran parte da profili che si riferiscono ai partiti che, storicamente o magari solo nell’ultimo decennio, sono stati compartecipi delle regole della crescita dell’impiego pubblico e che ora, seppur con qualche airbag (escludendo i docenti e il personale dell’OSC), intendono pigiare sul freno, innestando dolcemente la retromarcia, ma non vogliono sentirsi dire che starebbero prendendo in mano le forbici. Il grande limite dell’operazione che abbiamo sotto gli occhi sono le soglie e i meccanismi messi nero su bianco, un modo di fare che irrigidisce e che inquadra. È tutto fin troppo semplice, se ci troviamo a questo punto è perché qualcuno si è spinto oltre il limite e, ancor peggio, nessuno lo ha reso attento reagendo invece in maniera deleteria. Imitandolo. La reazione dettata con questa iniziativa porta qualcosa di buono, dovrebbe almeno generare un po’ di autocritica a tutto tondo.

Nessuno si offenda, ma qualche regola che è in vigore nel settore privato, non starebbe per nulla male trasposta nel pubblico. Non si tratta di trasferire la peggiore deriva della precarietà alla quale deve sottostare chi non è soggetto alla Legge sull’ordinamento degli impiegati dello Stato e dei docenti.

L’iniziativa sul tavolo, dal profilo tecnico lascia perplessi, ma da quello squisitamente politico, è un passo nella giusta direzione. Sarebbe già un successo se suonasse come un monito a cambiare rotta, anche senza una sua entrata in vigore che potrebbe anche costituire un corsetto troppo stretto e dagli effetti finanche indesiderati. C’è poi un ultimo elemento altamente significativo. Tra la schiera dei politici di UDC, Lega, PLR e Centro, emergono soprattutto figure di primo piano della Camera di commercio e dell’Associazione industrie ticinesi. Insomma, sembra che ci sia una sorta di partito dell’economia a dare man forte ai promotori. Le due associazioni che reggono le sorti di una parte considerevole dell’economia privata, non hanno avuto timore a farsi avanti, a schierarsi. Il segnale è inequivocabile: chi opera nel mercato e nel mercato del lavoro in mare aperto, di fronte a tante incognite, non è più disposto ad accettare che vi sia un porto, artificialmente costituito, sicuro e intoccabile.