L'editoriale

Il tarlo insidioso che corrode la democrazia degli Stati Uniti

Se l’economia fosse importante per decidere le sorti di un’elezione presidenziale, come avveniva nel secolo scorso, non ci sarebbe partita: vincerebbe Biden
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
26.02.2024 06:00

Se l’economia fosse importante per decidere le sorti di un’elezione presidenziale, come avveniva nel secolo scorso, non ci sarebbe partita. Vincerebbe Biden. La crescita degli Stati Uniti è da tempo superiore a quella dell’intera Europa grazie anche a una massa di aiuti pubblici senza precedenti. Nel 2008 l’Unione europea, con il Regno Unito, aveva un prodotto interno lordo superiore agli Stati Uniti. Oggi l’America vale una volta e mezzo l’Unione europea senza il Regno Unito. Grazie alla tecnologia, all’innovazione e all’indipendenza energetica (che l’Europa non ha). Certo, conta anche la demografia. Ma il prodotto lordo pro capite di uno degli stati più poveri, il Mississippi, è superiore a quello francese. Un invidiabile tasso di sviluppo ha i suoi lati negativi. Il debito pubblico ha superato i 34 mila miliardi di dollari. E pesa su ogni cittadino più di quello italiano, tra i più elevati al mondo. L’inflazione è in discesa ma morde ancora; l’occupazione è ai massimi ma i salari crescono in termini reali solo da un paio di anni. Biden ha l’economia a favore, l’età contro e sempre più democratici favorevoli a un cambio in corsa.

La crescita statunitense è avvenuta però anche nei quattro anni della presidenza Trump (2016-20). Il quasi certo avversario di Biden (ha stravinto le primarie in South Carolina a casa della sua rivale Nikki Haley) ritiene ancora oggi che la Casa Bianca le sia stata fraudolentemente sottratta. Un tarlo insidioso che corrode la democrazia americana. Si è manifestato con l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio di tre anni fa. Le inchieste non lo hanno debellato. Tutt’altro. E, insieme alla quantità di cause che grava sulla testa di Trump (91 capi d’imputazione), si è diffuso come un morbo privo di anticorpi. La secessione sentimentale della democrazia americana è persino peggiore di una guerra civile. Quando chi vince un’elezione non è riconosciuto nella sua legittimità di governo non c’è crescita economica che tenga. Non c’è benessere che dissipi il sospetto, fondato o no, di un inganno o di un sopruso. Il rivale si trasforma in nemico, in un estraneo infido. E più le idee si polarizzano più la pubblica opinione si trasforma in un insieme di tifoserie contrapposte.

Secondo un sondaggio dell’Annual american values survey, il 38 per cento degli intervistati accetterebbe di essere governato da un leader forte anche a costo di infrangere le regole costituzionali. Sono di più i repubblicani (48 per cento), ma aumentano anche i democratici (29). Karen Tumulty, sul Washington Post, si interroga su quanto la democrazia piaccia poco alle giovani generazioni. A testimonianza di questa deriva vi è tutta la difficoltà dell’informazione che, se è moderata e riflessiva, è spesso scambiata come poco coraggiosa o persino complice di fantomatici poteri occulti. Incredibile il successo di alcune teorie complottistiche. Inquietante la ricerca costante di «verità alternative» come se quelle ufficiali fossero sempre funzionali a disegni imperscrutabili. Con gli Stati Uniti che entrano nel pieno delle primarie - e danno il via a una contesa che appassiona da decenni e continuiamo ad ammirare - ci aggrappiamo tutti alla forza delle istituzioni e della grande cultura democratica con la speranza che la frattura antropologica tra repubblicani e democratici si ricomponga al più presto. E si torni al fair play, allo stile di una lotta politica dura, senza esclusioni di colpi, ma leale. Non solo per amore dell’America, ma anche per un malcelato egoismo di noi europei. E di tutti coloro che vivono in democrazie rappresentative ormai assediate da regimi autoritari ed economicamente, purtroppo, molto competitivi.

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