Il telefonino e il divieto a geometria variabile

Sono 11.111 le firme a favore dell’iniziativa «Smartphone: a scuola no». Un numero che ci dice che il verdetto su questo tema sensibile lo daranno le urne. E saranno gli adulti a dire sì o no, lo stesso mondo dei maggiorenni che quell’iniziativa l’ha firmata. I ragazzi sono fuori dai giochi. Il dibattito si è immediatamente animato tra favorevoli e contrari, è bastato un lieve tocco per fare reagire il nervo scoperto, come basta sfiorare lo schermo dello smartphone per accenderlo e richiamare il nostro sguardo che, come fosse un riflesso incondizionato, cade lì. A scaldarsi maggiormente in questa fase sono gli adulti, i ragazzi forse non si sono ancora accorti di quanto si sta muovendo. E l’agitazione del mondo dei grandi è sintomatica, finanche rivelatrice. Il divieto, comunque la si pensi, risveglia la nostra coscienza. Quello sul tavolo è un fatto politico, ma soprattutto sociale. Ed è uno specchio. La domanda vera non è se vietare o meno il telefonino agli allievi. La domanda autentica è: in che rapporto ci stiamo mettendo, noi adulti, con quello stesso oggetto che potremmo chiedere ai ragazzi di lasciare a casa? Nella più morbida delle ipotesi, nello zaino. Il paradosso sta nel rapporto che abbiamo noi adulti, magari indignati perché in aula ci si distrae, perché in pausa il figlio «non parla con nessuno», perché tutti stanno con la testa bassa e gli occhi sullo schermo. Poi lo stesso genitore, noi genitori, la sera, siamo a cena con il telefono sul tavolo, rispondiamo a un messaggio ogni tre forchettate, scorriamo il feed mentre il nostro pargolo ci racconta la giornata. Se fossimo pienamente sinceri, ammetteremmo che l’iniziativa suona un po’ come un gigantesco atto di rimozione collettiva: spostiamo il problema sui ragazzi, perché non abbiamo il coraggio di guardare il nostro. Intendiamoci: non si inalberino i puristi all’insegna de «io no, io mai, io non mi comporto così», la questione dello smartphone (e le più moderne evoluzioni) a scuola è reale. Chiunque abbia messo piede in un’aula negli ultimi anni sa che la concentrazione è fragilizzata, l’attenzione è continuamente insidiata dalla mania delle notifiche: niente come queste sanno richiamare l’attenzione. Poi ci sono i social, le chat di classe, degli amici, di ogni gruppo possibile e immaginabile. Le chat di tutto. E la scuola, ancora una volta, diventa il luogo in cui riversiamo le nostre ansie tecnologiche, pretendendo che l’istituzione faccia ciò che noi, nel privato, non sappiamo o non vogliamo fare: stabilire dei limiti. Siamo la società «no limits» e ci ribelliamo in maniera fondamentalmente ipocrita rispetto a quanto noi stessi abbiamo generato e dal quale noi stessi siamo schiavizzati. Due numeri per rimettere le cose in prospettiva. In Svizzera il 92% della popolazione usa uno smartphone; la penetrazione di Internet sfiora il 99%. La connessione è diventata uno stato naturale: siamo sempre raggiungibili, sempre aggiornati, sempre «online». Ho fatto mente locale: conosco una sola persona adulta che da sempre vive senza l’aggeggio che in questi minuti ho messo da parte per non essere distratto dall’effetto schermo come le lucine di Natale che ho davanti ai miei occhi. Ed è un libero professionista, un uomo serio, di cultura e con vita sociale. Non un cavernicolo. Questo mi porta a dire che «si può», ma non vogliamo. In primis il sottoscritto. Statisticamente trascorriamo con gli occhi sullo schermo del telefonino 4 ore e 37 minuti, 70 giorni circa ogni anno. Una vera follia. Anzi, letteralmente la dipendenza più pressante in termini temporali della nostra quotidianità. Non è solo una questione svizzera, è una tendenza globale.
Il nostro cervello non è nato con l’iPhone di turno, ma quello delle prossime generazioni lo sarà. E non siamo sereni, non siamo tranquilli, peggio ancora essere fatalisti sarebbe da incoscienti. L’adolescenza è una fase delicata, il cervello è ancora in sviluppo, la capacità di autoregolazione è fragile. E il mercato digitale ha tutto l’interesse a occupare quanto più possibile di questo spazio mentale.
Parliamo pure del telefonino a scuola, ma cogliamo questa occasione privilegiata per metterci in gioco e in discussione. Anzi, che il dibattito pubblico e la riflessione intima e familiare, parta proprio da questi elementi. Gettiamo la maschera cari adulti. Magari, impariamo per primi noi a mettere da parte il telefonino per riscoprire la luce e le ombre degli occhi di chi ci si pone di fronte e che, presi dallo schermo, non siamo più capaci di osservare, conoscere, formare ed educare. Spesso si tratta dei nostri figli. Meditiamo adulti e genitori, meditiamo.

