Il Ticino in difficoltà e la rotta del sacrificio

La nostra bandiera è rossoblù, ma il destino che ci attende è monocolore: da profondo rosso. I numeri del disastro li ha messi in fila uno per uno, con il segno meno davanti, il Consiglio di Stato nel corso di una sorta di litania politico-finanziaria. Sullo sfondo il Preventivo 2026 e il Piano finanziario che ci mostra solo drammatici scenari almeno fino al 2029. Un autentico default politico-economico osservato mettendo in atto qualche misura che ne attenua lievemente la portata, ma che, con disarmante realismo, appare come un destino ineluttabile. L’incertezza, dettata da eventi macro rispetto alla nostra realtà micro, sono riconosciuti da tutti, la situazione geopolitica e i dazi sono scogli enormi per noi e le prospettive che ne derivano preoccupanti. Nessuno s’illude di poter sovvertire, partendo dal piccolo Ticino, eventi di portata planetaria. Ma questa realtà non può fungere da alibi per tutto giustificando le nostre profonde debolezze strutturali, nascoste per anni all’insegna della faciloneria che sottintende la teoria (impraticabile) secondo cui «prima o poi tutto s’aggiusta». Spiegare le difficoltà del Cantone aggrappandosi a ciò che non potremo mai determinare o affrontare ha il sapore della scorciatoia troppo facile, della giustificazione per fuggire dalle proprie responsabilità. In primis la responsabilità del mondo della politica, per sua natura atavica abile nel concedere ma senza mai chiedere. Come se quello che finanzia lo Stato non avesse un prezzo, perché mostrare il bello ai cittadini sembra il compito principale di chi fa politica. In questi giorni il Consiglio di Stato è sotto pressione e bersagliato di critiche giustificate. Ma occorre fare attenzione a non cercare un capro espiatorio sul quale scaricare tutte le colpe possibili e immaginabili.
La debolezza del collegio l’abbiamo percepita ancora ieri nel presentare le cifre di un Ticino in difficoltà, ma chi è al fronte alla testa dell’Esecutivo è solo «una parte del problema». Le colpe vanno condivise con il Parlamento, quel gremio di 90 deputati che, storicamente, ha elargito prebende a destra e a manca generando soddisfazione, sorrisi, pacche sulle spalle e, al momento giusto, voti. Avveniva quando i partiti erano quelli del tavolo di sasso, la storia si è ripetuta dopo quella che doveva essere la rivoluzione movimentoleghista d’inizio anni Novanta ed è presente anche ai giorni nostri seppur di fronte a un Gran Consiglio formato spezzatino. Ognuno, comprese le lobby istituzionali a destra come a sinistra e quelle populiste, è parte di questa realtà che per decenni si è autoalimentata. Le cifre presentate da un Governo inerme ne sono la sintesi nuda e cruda, la realtà di un sistema/Paese letteralmente insostenibile. Credere, o far credere, ai cittadini che si potrà andare avanti così sperando che domani andrà meglio perché magari Trump rinsavirà o nel mondo regnerà la pace è più irresponsabile che aver fatto del Ticino una società che vive ampiamente al di sopra delle proprie possibilità. Certamente ora arriveranno le sirene dei faciloni secondo i quali «i soldi ci sono, basta andare a prenderli», nel senso che abbiamo ricconi da spennare: la frontiera massima dell’illusione. Chi crede che questi soggetti restino da noi a farsi spremere con gusto, vive in un mondo parallelo. I conti del 2026 sono disastrosi non esclusivamente per il disavanzo prossimo ai 100 milioni di franchi, ma per gli indicatori finanziari e quel grafico che ci mostra una tagliente forbice che si divarica, all’insegna di ricavi che crescono e le spese che s’impennano generando un insano scostamento. Sta di fatto che, ad eccezione di qualche mossa azzeccata nel corso degli anni, continuiamo a spendere troppo per soldi che non abbiamo, costretti ad indebitarci non solo per giustificati e lungimiranti investimenti, ma pure per sostenere la gestione corrente.
Nel vocabolario cantonale dovrebbe trovare un posto sul podio il termine «sacrificio», ma non possiamo sperare o illuderci che a farlo sia quel cittadino che, abituato troppo bene, vede lo Stato come un pozzo senza fondo da cui attingere. Il richiamo forte, una sorta di grido d’allarme a ritrovare per primo la rotta, va rivolto a un Governo visibilmente privo di fiducia e incapace di scelte forti, come quella di uno stop temporaneo a questo preventivo in vista di un mese di crisi con partiti e alti funzionari per mettere in atto quelle mosse che non possono più essere procrastinate. Sulle casse malati la sberla è arrivata dal popolo lo scorso weekend e per la macchina statale è solo questione di tempo, quando i cittadini voteranno l’iniziativa propugnata dall’UDC, «Stop all’aumento dei dipendenti cantonali». Senza dimenticare che i ticinesi saranno protagonisti nei prossimi mesi/anni alle urne su ogni genere di mossa (aggravi o tagli). C’è da sperare che la evaporata credibilità del Governo abbia davvero toccato il fondo la scorsa domenica.