La deriva dei social, veri nemici dei giornali

Anche i social media hanno una loro «storia», un loro sviluppo e un loro deterioramento che va preso in considerazione se si vuole frequentarli senza troppi danni. Alla loro nascita, i social erano simili a una ritrovata rubrica del telefono: in tanti di noi, infatti, li hanno usati in primis per rintracciare vecchi amici o compagni di classe, per fare nuove conoscenze o per piccole attività commerciali. Poi sono diventati luoghi di conversazione e di dibattito più o meno tollerante, alla stregua di un bar o di una tavolata al ristorante o di una riunione di partito. Oggi, invece, le funzioni dei social si sono sviluppate in modo ipertrofico ed essi sono diventati parte integrante del discorso pubblico e politico, nonché strumenti di manipolazione psicologica e di propaganda. La qualità del discorso politico stesso, però, non è affatto migliorata, anzi decade ogni giorno di più, sotto la mannaia della frammentazione delle opinioni, dell’opportunismo di non pochi candidati che hanno trovato la via economica per fare campagna elettorale e di altrettanti nom de plume che hanno scoperto un modo spiccio e deresponsabilizzante di vestire il saio laico della critica civile. Alla fine, i social sono diventati, purtroppo, la vera patria di mestatori di ogni tipo, che vi hanno trovato un ambiente lubrificato al peggio e all’invettiva, con gli algoritmi che spingono anche i followers in tale direzione. Proprio il contrario della «socialità» e della democrazia nella sua forma migliore, quella basata sul dialogo franco e a viso aperto, teso alla risoluzione dei problemi del vivere comune.
Da questo punto di vista, ci sarebbe da spezzare anche più di una lancia a favore dei media tradizionali, soprattutto i giornali cartacei, che proprio per i loro limiti strutturali sono meno propensi a degenerare in infinite, polarizzanti e sterili discussioni. Ogni giorno, ad esempio qui al Corriere del Ticino, sappiamo che dobbiamo dare ai nostri abbonati innanzitutto notizie e informazioni accurate, raccolte con un metodo faticoso e dispendioso che spesso sfugge ai «commentatori» sui social. I quali, se non avessero le notizie raccolte e organizzate dai media tradizionali, spesso non saprebbero di che scrivere o non avrebbero la stessa capacità di autonoma indagine giornalistica.
Non è una novità: i social parassitano i media tradizionali. Pure a livello macro: recenti sentenze in sede UE hanno riconfermato come i colossi digitali americani sfruttino a man bassa i contenuti prodotti dalle «vecchie» e care redazioni dei giornali. Forse per nascondere meglio questo sfruttamento, negli ultimi anni si è proceduto con un assedio culturale senza precedenti alla carta stampata e al giornalismo tradizionale, facendo il possibile per disautorarlo e screditarlo, e per farlo passare come una semplice «bucalettere» dei poteri occulti, cosa che, ça va sans dire, non è, e la sua storia lo dimostra.
Un fatto di cronaca avvenuto in Italia, a Torino, pochi giorni fa dà la misura di questa deriva. Un centinaio di antagonisti sedicenti pro-Pal hanno vandalizzato la redazione centrale dello storico giornale La Stampa, scandendo slogan inneggianti all’uccisione di giornalisti («Giornalista, sei il primo della lista»), distruggendo scrivanie e librerie e imbrattando le pareti. Un evento, a nostro parere, molto grave. Il direttore della Stampa, nei giorni successivi, rivolgendosi ai teppisti invasati, ha scritto parole accorate: «Avete idea di che cos’è un giornale? Di che cosa rappresenta? Del valore della libertà di informazione? Sapete chi siamo? Del dibattito ininterrotto sul massacro compiuto a Gaza? Sarebbe interessante sedersi ad un tavolo comune, guardarsi negli occhi, parlare civilmente, provare a ragionare. Venite, se volete. Non avete bisogno di spaccare nulla. Siamo un luogo abituato ad aprire le porte, non a chiuderle. Invece siamo nell’era dell’istinto animalesco da social, da chiamata alle armi emotiva».
Purtroppo temiamo, anche se in misura diversa (ma non troppo diversa, viste le degenerazioni di certe recenti manifestazioni anche nella nostra Lugano), che questa deriva «da social», questa mentalità incattivita e malsana, sia tutt’altro che lontana dall’esaurirsi pure nel nostro cantone, dove anzi rischia di essere aggravata dal fatto del «conoscersi tutti». Da parte nostra, continueremo a fare informazione, ci teniamo a ribadirlo, indipendente.

