L'editoriale

La gentilezza sospetta delle macchine parlanti

Perché la macchina umanizzata è gentile fino all’ultima sillaba? Perché parla un linguaggio seduttivo, rassicurante, complice e dal tono accomodante e amichevole in ogni circostanza? Per sembrare più umana dell’umano
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Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
20.01.2024 06:00

Non ce ne vorranno gli estimatori dell’attore canadese Douglas Rain, che era stato scelto da Stanley Kubrick per la versione originale, ma almeno per noi italofoni gran parte della forza inquietante di HAL 9000, il supercomputer omicida protagonista di 2001: Odissea nello spazio è merito indubbio della superlativa interpretazione di Gianfranco Bellini, il leggendario doppiatore che diede la voce e l’intonazione ad uno degli incubi più profetici dell’immaginario collettivo moderno. Quella insuperabile caratterizzazione vocale, suadente, emotiva e capace di spiegare allo spettatore la drammatica evoluzione della trama con la sola variazione del timbro e con una gamma vastissima di intonazioni, mantiene sempre, fino all’epilogo straziante, una caratteristica indimenticabile: è straordinariamente gentile. E forse soltanto oggi possiamo capire davvero le ragioni e il significato profondo di quell’interpretazione memorabile. Perché la macchina umanizzata è gentile fino all’ultima sillaba? Perché parla un linguaggio seduttivo, rassicurante, complice e dal tono accomodante e amichevole in ogni circostanza? Per sembrare più umana dell’umano.

Quello che Arthur C. Clarke, lo scrittore di fantascienza che del film diretto da Kubrick aveva messo a punto anche la sceneggiatura, e il regista stesso sapevano bene (e che invece oggi tutto congiura per farci dimenticare) è che i sistemi di intelligenza artificiale malgrado siano presentati come se si fossero fatti da soli sono «artefatti», prodotti cioè da un essere umano che li ha creati col suo ingegno, col suo lavoro e con la sua sensibilità. E anche il tono rientra in una precisa e studiata scelta di programmazione. Ora, fa parte delle nostre esperienze quotidiane renderci conto di come la rivoluzione digitale ci stia disumanizzando, ad esempio rendendo sempre più difficile la capacità di riconoscere noi stessi nello sguardo degli altri oppure di quanto la deriva social ci stia facendo perdere il pudore di dare il giusto peso alle parole e di assumercene di conseguenza la responsabilità, ma c’è anche un altro fondamento della civile convivenza che (sarà un caso?) proprio in quest’epoca sta diventando merce rara e desueta: la gentilezza. Troppo spesso fraintesa, scambiata con la debolezza (quando invece è segno di grande forza), confusa con l’ingenuità, la passività o la malizia, specialmente nel non luogo cibernetico dove trionfano, semianonime, la maleducazione e l’aggressività, la gentilezza è ormai poco insegnata e poco praticata e dunque proprio per questo apprezzata anche e soprattutto nella vita reale dove appare (quando appare) come la scorciatoia più immediata sulla strada dell’empatia. D’altronde è ampiamente dimostrato quanto la gentilezza sia strettamente legata alla cosiddetta intelligenza emotiva, quella di esclusiva pertinenza umana, anzi, quella che (speriamo ancora a lungo) ci rende unicamente umani e che ci permette di comprendere e gestire le nostre emozioni e quelle degli altri. Una qualità sempre più preziosa ma anche la nuova vera competenza per garantirsi il successo.

E allora ecco che, come previsto dalla fantasia dei più temerari autori di fantascienza, chi programma l’intelligenza artificiale (e stiamo parlando di un preciso modello di business con immensi interessi economici alle spalle) ha deciso di farcela apparire «gentile» e sempre in grado di capirci. Come spiegava in una bella intervista ad un importante settimanale italiano Daniela Tafani, docente di Etica e politica dell’intelligenza artificiale all’Università di Pisa e puntuale voce critica di una realtà viziata da troppe e interessate suggestioni ingannevoli, «ChatGPT non comprende, non vuole comunicarci nulla e non ci fornisce in realtà alcuna informazione. Se una cosa non la sappiamo già, non possiamo chiederla a ChatGPT. Eppure, interagisce con noi in un modo gentile dandoci l’impressione che capisca». Ma perché un linguaggio gentile, appunto? «Perché chi progetta queste macchine vuole che ci ingannino» - spiegava l’esperta – «anche il tono fa parte della progettazione: i sistemi di intelligenza artificiale possono essere calibrati per restituire modelli sintattici e lessicali che noi troviamo gentili».

Proprio come il caro HAL 9000, una macchina perfetta con l’istinto di uccidere le persone. Gentilmente.

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