La partita su Gobbi-Zali si gioca solo in Governo

La vicenda dell’arrocco dipartimentale tra Norman Gobbi e Claudio Zali si è arricchita di un nuovo capitolo domenica sera, con l’assemblea della Lega che ha benedetto lo scambio con Gobbi destinato al Dipartimento del territorio e Zali a dirigere quello delle Istituzioni. Gran cerimoniere, tornato in auge dopo qualche giorno di silenzio, il coordinatore Daniele Piccaluga. Ebbene, forse è opportuno sottolinearlo, l’avallo leghista non ha alcun valore pratico. È unicamente la confezionata e prevedibile risposta del vertice del fu movimento, al fuoco di fila degli altri partiti dopo la scomposta uscita allo scoperto.
La partita che conta si giocherà solo in Governo e toccherà ai cinque membri dell’Esecutivo presenti nella stanza (con il cancelliere a badare agli aspetti legati alla forma) confrontarsi con sincerità, onestà e tanta sostanza politica. A due settimane dalla mossa «mattiniera» non è ancora chiaro quali siano i reali intendimenti politici e pratici di questa bizzarra proposta. E non è noto se e quando il Consiglio di Stato intenda parlarne, sempre nella speranza che i due leghisti mettano sinceramente tutte le carte sul tavolo. Magari anche spiegando il «Territorio nel nome di Gobbi» e la «Giustizia secondo Zali». Il nodo rimane sempre lo stesso e i quesiti, stringi-stringi, due: «perché?» e «per fare cosa?».
Il via libera dell’assemblea leghista era scontato ed è banale, finanche risibile l’enfasi con la quale Piccaluga e i suoi hanno comunicato qualcosa di letteralmente inutile. Purtroppo, i media non hanno potuto raccontare cosa è accaduto in quella sala nel caldo pomeriggio di domenica e questo per un semplice ed elementare aspetto. Come al solito occhi ed orecchi estranei ai leghisti tesserati non erano ammessi. È la ben nota democrazia leghista delle porte chiuse. Siamo nel 2025, l’informazione viaggia veloce, tutti si vantano dell’immediatezza e della trasparenza. Poi la Lega, che si fa vanto di essere tanto «vicina alla gente», esclude, da un momento di dialogo che si vorrebbe franco e partecipativo, i media, nemici per antonomasia. Noi, sinceramente, sulla questione delle porte chiuse abbiamo raggiunto la pace dei sensi, non ci inalberiamo, non ci indigniamo, semplicemente ci viene da sorridere, specie quando rileggiamo e riascoltiamo le dichiarazioni che vengono reiterate, per imboccare tutti con tanto ottimismo e frasi fatte. Significativa è stata la risposta di Piccaluga alla puntuale domanda: «Avete votato?» ha chiesto un giornalista, «assolutamente no» ha replicato tronfio e serafico il coordinatore.
Come se contarsi, come se esprimere nel merito consenso o dissenso siano modi di fare di un altro mondo. Abbiamo capito che sono abitudini non in linea con il credo plebiscitario leghista, il quale preferisce farsi portavoce «dell’entusiasmo» (vero o presunto, dato che nessuna parte neutra lo ha potuto valutare) della sala. Non ce ne voglia Zali, ma l’affermazione secondo la quale c’è stato «stupore per il polverone che si è creato» non è affatto all’altezza della sua intelligenza e abilità. Lui, Gobbi, Piccaluga e il domenicale hanno insistentemente puntato il soffiatore a motore del Mattino sulla sabbia (con il rischio di disturbare la quiete pubblica nel dì della festa e generare pure inquinamento acustico) e ora ci dicono che il polverone lo hanno alzato altri? Qualcosa ci sfugge, perché tutto quanto viene dato in pasto a chi non ha assistito all’assemblea, fa a pugni con il concetto di «scuse». Il Governo aveva bacchettato i due leghisti usando il termine «disappunto» per la modalità di comunicazione (un unicum da ministri a ministri) aggiungendo che il collegio, o quello che rimane di questo concetto dopo un simile strappo, aveva deciso «di prendersi il tempo necessario per analizzare la questione».
Gobbi-Zali, ci era stato detto, si erano «scusati». Ma fateci capire: scuse sincere o di facciata? Si dice che «chi sbaglia, impara», qui vien da dire che «chi sbaglia, ci ricasca». Ci sfugge il senso di riconoscere un inciampo e immediatamente dopo replicarlo. Qual è il fine del rispetto istituzionale se prima della discussione e del confronto intergovernativo ci si espone vantandosi petto in fuori con la cosiddetta base per ottenere (senza l’ombra di un voto, per carità) semaforo verde?
Vien da dire che il passo dal mettersi in discussione a mettersi in vetrina è davvero breve. Siamo più che mai di fronte e una sorta di campagna marketing tesa dapprima a provocare per fare discutere, per poi tentare di «vendere il prodotto» senza neppure mostrare il contenuto della scatola. Ma quel pacchetto ora va aperto nella sala del Governo, nella tempistica e con le modalità che l’Esecutivo reputerà consone, perché, come dicono gli attori protagonisti di questa «soap opera» di bassa lega, i ticinesi hanno ben altri problemi da risolvere. Certo tanto altro che farsi intortare da un arrocco farlocco.