La prudenza della Fed e l'invadenza di Trump

Quest’anno Jackson Hole non è stato soltanto il consueto appuntamento informale di fine estate nel Wyoming per economisti e banchieri centrali. È stato soprattutto un banco di prova per Jerome Powell, da mesi sotto attacco del presidente Trump, che non perde occasione per reclamare a gran voce un abbassamento dei tassi immediato e massiccio. «Too late» (troppo tardi) è l’appellativo con cui l’inquilino della Casa Bianca chiama il presidente della Federal Reserve, la principale banca centrale al mondo. In questo contesto, ogni parola pronunciata sulle montagne del Wyoming ha assunto un valore politico oltre che economico.
Powell ha scelto la via della prudenza, ma la prudenza in tempi di pressioni politiche diventa un atto di coraggio. Il presidente della Fed ha riconosciuto il rallentamento del mercato del lavoro - con l’occupazione passata da una crescita media di 168 mila unità al mese nel 2024 a sole 35 mila negli ultimi mesi - e ha ammesso che le nuove tensioni tariffarie alimentano l’inflazione. Ha dunque lasciato aperta la porta a un possibile aggiustamento della politica monetaria, senza però cedere alle richieste di tagli drastici e immediati.
I mercati hanno letto tra le righe e festeggiato: la probabilità di un taglio dei tassi a settembre, secondo gli operatori, sfiora il 90%. Wall Street ha brindato, i rendimenti dei Treasury sono scesi, e l’impressione è che la Fed sia pronta a muoversi. Ma Powell, con un linguaggio calibrato, ha di fatto rifiutato di farsi dettare la linea dalla Casa Bianca.
La vera novità, infatti, non sta nella frase «forse taglieremo i tassi», ma nella ridefinizione del quadro strategico: abbandonato l’obiettivo medio dell’inflazione sotto il 2% (a giugno il rincaro annuo ha fatto registrare il +2,7%), la Fed torna a un obiettivo più flessibile e tradizionale. Un segnale di autonomia e di ritorno all’essenza del doppio mandato: stabilità dei prezzi e piena occupazione, senza scivolare nella logica dei tassi eternamente a zero per dare una spinta alla ripresa economica che spesso ha dinamiche estranee alla politica monetaria.
Trump, abituato a vedere la banca centrale come uno strumento politico, ha bollato queste parole come insufficienti e comunque tardive: «Avrebbe dovuto tagliare i tassi già un anno fa», ha detto. Ma Powell ha mostrato che la vera indipendenza non si misura nella rigidità, bensì nella capacità di navigare tra le pressioni: da un lato un’economia che rallenta, dall’altro un presidente che chiede soluzioni facili e che ha già iniziato le manovre per nominare in seno alla Fed persone vicine alle sue idee. Il percorso verso un’inflazione “sostenibile” è comunque accidentato dalla politica commerciale di Trump. I dazi all’importazione sono per loro natura inflattivi per chi li impone e deflattivi per chi li subisce. È molto probabile che gli esportatori esteri verso il mercato statunitense siano disposti a ridurre il loro margine di guadagno per non perdere il cliente. La stessa cosa potrebbero farla gli importatori americani, se non trovano alternative al prodotto estero. Una parte, però, dei maggiori prezzi causati dai dazi andrà a colpire il potere di acquisto degli americani.
Jackson Hole, quest’anno, ci ha offerto lo spettacolo di un banchiere centrale che resiste. Non sappiamo se il 17 settembre ci sarà davvero un taglio dei tassi, ma una cosa è chiara: Powell ha difeso l’autonomia della Fed. E in un’America polarizzata, questo è già un atto politico.