La stagione dei grandi cambiamenti globali

Nell’era dell’intelligenza artificiale (Ai) fare previsioni è ancora più difficile o, forse, del tutto inutile. La grande massa di dati a disposizione e l’immensa potenza di calcolo sprigionata dai data center non ci mettono al riparo dai continui «cigni neri» che la Storia ci riserva. L’Ai non li vede. Meglio così. Il futuro va immaginato, costruito, conquistato. Se ce lo scrive un chatbot, l’umanità può dimettersi in blocco. Soltanto un anno fa, nessuno scommetteva sull’economia che avrebbe resistito alla furia dei dazi o sui mercati finanziari che avrebbero battuto ogni indice nella tragedia di due guerre. Tra le tante.
In ogni caso, le tendenze di fondo dell’economia e della politica, nell’anno che verrà, si vanno intensificando non indebolendo. Mario Del Pero, storico degli Stati Uniti, definisce la presidenza Trump - indiscusso protagonista del 2025 - «sovranista, neoimperiale, transazionale e patrimonialista». Giusto, ma non si può dire che il tycoon non abbia avuto un certo successo e sia privo di imitatori, soprattutto in Europa. L’America cresce più del previsto; l’inflazione morde meno del dovuto. Il consenso è in calo, certo. Le elezioni di mid term ci diranno se gli anticorpi di una democrazia funzionano ancora (e noi pensiamo di sì) o l’ideologia Maga è diventata ormai una fede identitaria. E al suo presidente-pavone tutto è perdonato. Trump sembra più in sintonia con dittatori come Putin, che ingolosisce sul lato degli affari, e Xi Jinping di cui teme invece il potere contrattuale, invincibile sulle materie prime rare. Siamo entrati nell’era in cui la logica del business sembra aver soppiantato secolari tradizioni diplomatiche. Il conflitto d’interesse è diventato una virtù (e forse favorirà la pace in Ucraina dopo aver contribuito alla falsa tregua a Gaza), la concorrenza un retaggio del passato. È l’ora dei monopolisti e degli oligarchi. Si assomigliano sempre di più.
Nel mondo neoimperiale non è più concepibile una potenza economica disarmata o poco consapevole di dover provvedere alla propria sicurezza, come è accaduto per decenni all’Unione europea e al Giappone. Il riarmo è una necessità ma non si sa fino a che punto condivisa dalle opinioni pubbliche europee. E sono tanti i partiti al potere, o in procinto di averlo, a non ritenere l’orso russo una minaccia. L’amara realtà è che, senza l’appoggio americano, l’Europa non è in grado di difendere Kiev. Un’Unione che vuole allargarsi (ai Paesi balcanici oltre che all’Ucraina) si misura con la propria incapacità di decidere a maggioranza. È al punto più basso della propria non ingloriosa esistenza. Gli Stati Uniti non sono più un alleato ma un avversario, specialmente sulle norme digitali. La Cina invade il mercato unico anche grazie ai prezzi bassi favoriti dall’acquisto del petrolio e del gas russo sotto sanzioni. Uno dei tanti paradossi di una guerra che ha favorito invece le esportazioni in Europa di gas liquefatto americano. Nel declino, ed è questa la più amara delle considerazioni, della sensibilità politica per gli effetti sull’ambiente del riscaldamento climatico.
I confini non sono più sacri. La sicurezza nazionale può pretenderne la ridefinizione. Se la si invoca per la Groenlandia difficile impedirla per il Donbass o per Taiwan. Gli orizzonti della scienza e della tecnologia non sono mai apparsi così esaltanti e, nel contempo, così inquietanti. Siamo fortunati perché viviamo una stagione di grandi cambiamenti nella quale però la democrazia - con i suoi valori e la tutela dei diritti - sembra un vaso di coccio già segnato da profonde crepe. L’augurio migliore per il 2026 è quello di vederle riparate, quelle crepe, da un sussulto d’orgoglio democratico e di senso umanitario.

