L'editoriale

L'eredità di Bergoglio, leader del dialogo

Papa Francesco ha combattuto i guasti della globalizzazione prendendo le difese dei più deboli, è stato più nelle periferie del mondo che nei palazzi del potere, persino nel palazzo apostolico si trovava a disagio
© KEYSTONE (AP Photo/Luca Bruno)
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
23.04.2025 06:00

La commozione è generale, a volte insincera. Molti, nel ricordarlo, parlano di sé. È la vanità dei necrologi. Un peccato veniale. Papa Francesco, se fosse ancora vivo, ne sorriderebbe. Lui stesso volle semplificare le esequie del vescovo di Roma, storicamente lunghe e barocche, per ricordare a tutti che la Chiesa deve stare nel tempo, non fuori. Ma non può nemmeno farsi travolgere dalla contemporaneità. Un po’ deve difendersi. Ecco qui riassunto un primo punto di attrito nella discussione sulla grande eredità, non solo spirituale, di Bergoglio. Un rivoluzionario? Per certi versi sì. Ha combattuto i guasti della globalizzazione prendendo le difese dei più deboli. È stato più nelle periferie del mondo che nei palazzi del potere. Persino nel palazzo apostolico si trovava a disagio. Il primo viaggio lo fece a Lampedusa per denunciare la disumanità del traffico dei migranti. L’ultima uscita dal Vaticano è stata al carcere di Regina Coeli, a Roma. A dimostrazione, dall’inizio alla fine del suo pontificato, di una attenzione costante per gli ultimi. Il suo pauperismo anticapitalista lo ha reso simpatico a sinistra. Quasi un’icona. Anche se forse, in cuor suo, e per il suo carattere, era più un conservatore.

Avversato, però, dai conservatori e dai tradizionalisti della curia. È stato un Papa ecologista perché la natura fa parte del regno di Dio e l’egoismo dell’uomo non la deve distruggere. Piacque ai giovani anche per questo.

Molti dei responsabili della globalizzazione disumana, della «cultura dello scarto», alcuni dei protagonisti della «guerra mondiale a pezzi», da lui costantemente denunciata, saranno sabato a Roma per piangerne la scomparsa. Quanta ipocrisia. Il conclave che verrà, però - quasi un estremo paradosso -, vedrà prevalere i cardinali elettori delle parti del mondo che la globalizzazione ha reso più forti. Scelti quasi tutti da lui. Non tutti bergogliani, anzi. Nella cappella Sistina si avvertirà un’impronta asiatica. L’Europa è minoranza ma lo è anche nel mondo cattolico. In ritirata da noi, fiorisce per fortuna altrove. Il testimone da raccogliere è pesante e non privo di spine. Ma la Chiesa sa sorprendere.

Papa Francesco è stato anche un riformatore? Sì, i semi gettati sono stati molti; i frutti raccolti pochi. Più gli annunci degli atti concreti. La riforma della curia è rimasta sulla carta. Non vi è stata più la strenua difesa dei valori non negoziabili, come negli anni del magistero di Benedetto XVI. Sulle questioni del fine vita, per esempio, è prevalsa una posizione misericordiosa che esclude l’accanimento terapeutico. Vi è stata una grande e paterna attenzione verso i diritti individuali e le identità di genere. Ma sono stati tanti gli ostacoli. Anche per impartire una semplice benedizione. Il ruolo della donna nella Chiesa è cresciuto, grazie ad alcune importanti nomine, ma la parità è dottrinariamente lontana.

La Chiesa è un’istituzione millenaria che ha dentro di sé incrostazioni, partiti e correnti. In qualche caso si è più secolarizzata del mondo esterno. Per Francesco era un ospedale da campo che accoglie e cura tutti. Non discrimina in un mondo che eleva muri e fili spinati. È vicina a tutte le sofferenze, senza essere parte di alcuna contesa politica. Una Chiesa «in uscita», in perenne cammino, con le braccia aperte. Un grande leader del dialogo multilaterale, forse l’unico rimasto, ci ha lasciato proprio nel mezzo del Giubileo della Speranza. Con il consiglio di sorridere al prossimo. Ascoltarlo, non guardarlo con sospetto e pregiudizio. Ne saremo capaci?   

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