L'editoriale

L'insondabile mistero del Festival di Locarno

Il successo quantitativo ma anche qualitativo di questa 76. edizione non può che essere considerato come una base solidissima per un futuro che si preannuncia diverso ma non certo rivoluzionario rispetto al presente
Antonio Mariotti
14.08.2023 06:00

Rosebud: questa è la misteriosa parola che mormora, sul suo letto di morte, l’anziano magnate della stampa Charles Foster Kane, rimasto solo nel suo immenso castello di Xanadu, all’inizio di Quarto Potere di Orson Welles. È questo il capolavoro scelto dal presidente uscente Marco Solari per concludere, sabato notte in piazza Grande, le proiezioni della 76. edizione e, nel contempo, il proprio eccezionale percorso alla guida del Locarno Film Festival. Il film non è altro che un’indagine a ritroso nel tempo alla ricerca del significato di questo mistero. Un’inchiesta vana, perché lo slittino che porta incisa la scritta «Rosebud», con il quale il piccolo Kane giocava felice prima di essere separato dai genitori, brucerà - insieme a tanti altri oggetti considerati inutili - nella magnifica e agghiacciante scena finale di quella che rimane (a oltre 80 anni dalla sua realizzazione) una delle opere più importanti della storia del cinema.

Il successo quantitativo (+14,3% di spettatori rispetto al 2022, +62% di presenze alla Rotonda, +10% di partecipanti a Locarno Pro) ma anche qualitativo di questa 76. edizione non può che essere considerato come una base solidissima per un futuro che si preannuncia diverso ma non certo rivoluzionario rispetto al presente. Proprio l’esito di Locarno 76 non potrà che confermare in maniera definitiva alla presidente designata Maja Hoffmann di non essere stata chiamata in Ticino per accorrere al capezzale di un malato, bensì per occuparsi di un felino in forma smagliante, pronto ad effettuare un ulteriore balzo verso nuovi orizzonti.

Chi terrà in pugno le redini del Pardo a partire dal 2024, non potrà però dimenticare che - dietro questa ritrovata vitalità dopo l’incubo della pandemia e un entusiasmo che mai come quest’anno è parso tanto contagioso - si cela un «Rosebud». Un insondabile enigma che affonda le proprie radici nell’infanzia del Festival, nel suo spirito intriso di curiosità, di coraggio, di spregiudicatezza ma soprattutto di amore per la libertà e la giustizia. Una sensazione che quest’anno è balzata all’occhio di tutti coloro che sabato pomeriggio hanno assistito alla cerimonia di premiazione. Non è stato facile ascoltare la regista ucraina del film Stepne elencare, con la voce rotta dal pianto, i membri della sua troupe nel frattempo uccisi da una guerra assurda o impegnati come soldati al fronte. È stata quasi insopportabile la rabbia espressa dal produttore del film iraniano Critical Zone, vincitore del Pardo d’oro. Rabbia, invece di gioia, perché il regista non c’è e non si sa se potrà mai girare altri film in futuro. Rabbia per un popolo che soffre da decenni sotto un regime autoritario. Rabbia nei confronti della politica occidentale che tollera tutto ciò. Emozioni forti, che a Locarno non si esprimono però solo a parole, ma anche e soprattutto attraverso le storie raccontate da molti film e dalle loro immagini. Quando si raggiunge, come è capitato più volte quest’anno, la magica corrispondenza tra forma e contenuto, tra ciò che si vede sullo schermo e il messaggio che l’autore o l’autrice del film intende trasmettere, si può pensare di aver raggiunto il «Rosebud». Cioè che il cinema abbia ottenuto quel risultato raro i cui ingredienti sono molteplici e in parte rimangono misteriosi.

Per la nuova presidente e le persone che saranno chiamate ad attorniarla le sfide da affrontare saranno molte: organizzative, politiche, infrastrutturali, economiche ed artistiche. In nessuna circostanza, però, nessuno di loro potrà scordare quel quid per cui Locarno è Locarno. Ciò che lo distingue da qualsiasi altra manifestazione simile. Chiamiamolo «Rosebud», chiamiamolo come ci pare, ma l’importante è che non finisca a bruciare nella stufa per distrazione o per ignoranza.

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