L'editoriale

Morta l'alleanza, rimane l'insulto

Lega-UDC? Sono anni che si fa finta che, in fondo in fondo, non è mai detta l’ultima parola, e si potrebbe anche immaginare una potente calamita in grado di compattare la destra ticinese
Gianni Righinetti
23.12.2025 06:00

Va detto subito, senza giri di parole e senza il cerimoniale ipocrita della politica cantonale: l’alleanza Lega-UDC non è finita. È morta e sepolta. D’altronde sono anni che si fa finta che, in fondo in fondo, non è mai detta l’ultima parola, e si potrebbe anche immaginare una potente calamita in grado di compattare la destra ticinese. La farsa si trascina da troppo tempo, senza che nessun leghista e nessun democentrista abbia avuto il coraggio, la coerenza e la trasparenza di ammettere che nel 2027 ognuno farà la sua corsa. Questo permetterebbe finalmente di capire quanto valgono i due partiti separati e chi detiene realmente la leadership dell’area. D’altronde era un matrimonio d’interesse, non d’amore. E come tutti i matrimoni d’interesse, ha funzionato finché i conti tornavano e il nemico era chiaramente identificabile altrove. Poi, quando il potere è diventato concreto e ha messo radici nella Lega con dipartimenti, progetti, responsabilità, cadreghe e supponenza, l’UDC non è più stata alleata ma una concorrente. E pure temibile perché con la sua crescita esponenziale dei consensi ha fatto tremare le certezze leghiste. È diventata ambiziosa e si è data un tono, forse «delle arie». Così sono cadute le maschere. Negli ultimi anni se ne sono dette di tutti i colori. Non critiche politiche, che sarebbero legittime, ma bordate personali che sfiorano l’insulto e talvolta lo superano con disinvoltura. La scorsa settimana l’affaire tram-treno è diventato il totem attorno a cui celebrare il rito dello scontro: non più un progetto infrastrutturale da discutere nel merito, ma il simbolo di una guerra per l’egemonia dell’area sovranista-populista. Chi lo difende è venduto, chi lo critica è irresponsabile. Fine dell’argomentazione. Quando sentiamo un consigliere di Stato che dal pulpito si rivolge in aula a un partito e ai suoi esponenti e afferma due volte «siete nulli», non possiamo volgere lo sguardo altrove. Il consigliere di Stato Claudio Zali, razionale e sostenibile nel difendere la via del tram-treno è diventato irresponsabile e indifendibile con l’inqualificabile definizione riservata a dei parlamentari eletti. Qui non è questione di destra, sinistra o centro. È semplicemente e sostanzialmente il rispetto che è dovuto a chiunque e che vale a maggior ragione nel luogo principe del dibattito parlamentare. Quello non è uno spazio per verginelle e negli anni ne abbiamo sentite d’ogni genere, ma l’acredine personale lì non può avere dimora, non si può tollerare, men che meno da un consigliere di Stato. Talvolta, quando si sbaglia, basterebbe scusarsi. Lo insegniamo ogni giorno ai nostri figli. Con il passare di mesi e anni i leghisti sono diventati il bersaglio preferito da parte dei democentristi, poi le provocazioni sono state continue, anche da parte di Zali, presentatosi a sorpresa (dopo una mossa studiata in casa con il coordinatore Daniele Piccaluga) a La domenica del Corriere lo scorso aprile, per scontrarsi con Piero Marchesi e Sergio Morisoli: «Personalmente, ho cose in comune con altri schieramenti: penso al PLR, ai Verdi. Io non mi sono mai riconosciuto nella vostra area» aveva detto. Provocazioni indubbiamente finalizzate a generare una reazione, perché l’ex giudice, e questo è dimostrato, ha un’intelligenza sopraffina e non fa mai nulla per caso. Per l’UDC, che fatica a levarsi di dosso l’onta politica di avere contribuito ad eleggerlo, non c’è stata altra via che attaccarlo come si attacca un traditore: con particolare acrimonia, ad esempio sul tram-treno. Marchesi in questa storia è una figura centrale, bersaglio costante e megafono instancabile. Le sue affermazioni negli anni sono diventate sempre più dure. L’escalation tra i due è partita da lontano, già nella campagna del 2023, quando Zali ha voluto evitare un confronto pubblico con l’altro malcantonese. Con liste e corse distinte questo avverrà nel 2027. Perché nessuno immagina che il consigliere di Stato stia impegnandosi così in prima persona per poi dire: «Cari ticinesi, non mi ricandido. Piero, prego, accomodati». L’alleanza UDC-Lega è stata per anni raccontata come naturale, quasi genetica. Stesso elettorato, stessi slogan, stessi bersagli. Ma la politica non è genetica, è dinamica. E quando due forze occupano lo stesso spazio ideologico, prima o poi iniziano a pestarsi i piedi. Soprattutto se una governa e l’altra ha lo stesso obiettivo in testa. È arrivato il momento di dirlo chiaramente: quell’alleanza non esiste più. Continuare a evocarla serve solo a prolungare l’agonia. Meglio prendere atto della realtà e tornare, se possibile, a un confronto duro ma civile, sferzante ma non livoroso. Altrimenti il Ticino rischia di rimanere ostaggio di una guerra intestina che non porta da nessuna parte. A meno che si reputi il palcoscenico essenza della politica del fare. La politica non è sempre seria, ma ridurla a una gara di insulti è davvero troppo.