Quando si può dare un senso di pace e di serenità alla propria vita

Lasciato alle spalle un anno difficile, all’inizio di un nuovo anno siamo soliti scambiarci gli auguri, sperando che sia buono, anche se il futuro non è nelle nostre mani e noi non siamo padroni della nostra vita, perché non abbiamo nessuna possibilità di determinare il corso degli eventi. L’auspico è di poter godere di buona salute e di essere felici. Ma vien da chiedersi: che cosa significa lo stare e bene, nonostante la nostra fragilità umana che ci portiamo appresso dalla culla alla tomba? Ma quando si ha il coraggio di realizzarsi nella vita quotidiana, nella quarta dimensione, «è incredibile quanto possa fare lo spirito per conservare il corpo». Così disse l’ottantunenne Goethe ad Eckermann».
«Se avessimo la capacità di raccogliere dentro di noi tutte le forze spirituali e di vivificarle, disporremmo di un’illimitata, pacifica possibilità di trasformazione di noi stessi e degli altri. Ma, nel migliore dei casi, dei milioni di atomi spirituali che potiamo dentro di noi ne mettiamo in movimento una dozzina, e per lo più anche queste dormono» (Da «Briciole di vita e di Speranza», pagina 79 - Edizioni Paoline 1988).
E che cosa cos’è la felicità? Che cosa significa essere felici? Ed è possibile esserlo? Certo che è possibile! I Filosofi antichi e il grande Agostino di Ippona, hanno cercato di dare una risposta a questo interrogativo che l’uomo, da sempre, si pone, spesso con tormento e angoscia, riconoscendo che una risposta univoca non è facile. Se però l’uomo e la donna sono capaci di fare un esercizio interiore per migliorare sé stessi, possono fare un’esperienza che dà un senso di pace e di serenità alla propria vita.
Tale ricerca ci coinvolge in un processo interiore di responsabilità verso sé stessi ma anche verso gli altri. Quando siamo capaci di accettare l’altro e gli prestiamo attenzione e ascolto senza la pretesa di dominarlo, dilatiamo il nostro orizzonte nel segno di una conoscenza che è un arricchimento reciproco. Non c’è amore e vita senza dono, non bisogna scandalizzarsi della fragilità dell’Altro o mettere in discussione il suo atteggiamento o le sue scelte di vita.
Allora scopriremo che la felicità non è qualcosa di esteriore, di effimero, ma è un lieve e dolce canto dell'anima, «simile - s'è detto - al magico andante che chiude la suonata in sol mi maggiore op. 109 di Beethoven».
La tragedia degli esseri umani consiste nel fatto che, spesso, gli uomini non trovano la mano che sa guidarli ad ascoltare la melodia della felicità, al fine di avere quadri di riferimenti e direzioni di senso nella propria vita.
Aprire il nostro spirito che, pur tra ombre e chiaroscuri, è una fiammella che brilla dentro il nostro cuore, e che va alimentata, è spaziare su più ampi orizzonti: è non rimanere immobili, racchiusi dentro la corteccia del nostro «Io»: è scalare, con fatica, come fa l’alpinista, le rocce della montagna.
Ciò vuol dire camminare diritti sui sentieri dello spirito e puntare in alto, sempre più in alto: - «Duc in altum!»; per raggiunge la vetta che ci conduce al tempio della gioia e della felicità vera che nessuno al mondo ci potrà rubare.
Chiudersi a riccio in sé stessi, con i propri pensieri e problemi esistenziali, le proprie angosce, è non stare bene al mondo: è non è essere felici! A volte si nasconde nelle pieghe del nostro cuore un narcisismo autoreferenziale che ci impedisce di ascoltare e di incontrare l’Altro, ma solo i nostri bisogni, le nostre aspettative.
Nel nostro silenzio e nella nostra solitudine, spesso, non ci accorgiamo che c'è sempre qualcuno, magari l'inquilino della porta accanto o all'angolo della via che ha bisogno di noi. Se poi non sappiamo contribuire alla felicità degli altri, per il nostro poco amore e il nostro egoismo, ci si velano gli occhi e il nostro cuore si chiude.