L'editoriale

Un dubbio s'insinua: moriremo tutti UDC

Parallelamente ai risultati che ne attestano l’ascesa, il partito di Piero Marchesi è diventato anche un punto di riferimento per chi cerca nuovi spazi in politica al di fuori dei partiti storici
Giovanni Galli
17.04.2024 06:00

Non moriremo democristiani. È uno storico titolo con cui, nel 1983, il Manifesto, giornale comunista, commentò l’esile vittoria della DC alle elezioni politiche. Galvanizzato dal riavvicinamento del PCI, il direttore Luigi Pintor considerava ormai imminente il sorpasso sul partito cattolico e lanciò a caratteri cubitali, in prima pagina, il suo messaggio di speranza. Ma poi gli eventi presero tutt’altra piega e a livello popolare quel titolo venne più volte riciclato nel motto contrario: moriremo tutti democristiani. Perché in un modo o nell’altro la disciolta DC era stata in grado di risorgere dalle sue ceneri e di condizionare la politica italiana sotto mentite spoglie. Ora, a scanso di equivoci, tutto ciò non ha assolutamente nulla a che vedere con la Svizzera. Ma se si guarda la forza d’attrazione esercitata negli anni dall’UDC su un numero crescente di esponenti politici di altri partiti, viene spontaneo chiedersi, a mo’ di battuta, se avanti di questo passo moriremo tutti democentristi. Da oltre vent’anni l’UDC è la forza di maggioranza relativa a livello nazionale. La sua consistenza è quasi triplicata rispetto all’inizio degli anni Novanta, quando il partito era ancora una formazione moderata d’area conservatrice e rappresentante del ceto agrario. Un mix di rinnovata linea politica, organizzazione e comunicazione, sotto la spinta di un leader carismatico come Christoph Blocher, le ha permesso di scavalcare a Berna tutti gli altri partiti di Governo. A parte la scissione del PBD, pienamente riassorbita, l’UDC è stata anche un approdo per non pochi transfughi di altre formazioni dell’area borghese, in particolare democratici-cristiani e liberali-radicali. I cambi di casacca nel mondo politico sono moneta corrente e interessano tutti gli schieramenti - nel 2019 aveva fatto discutere il passaggio della socialista zurighese Chantal Galladé ai verdi liberali - ma quelli verso l’UDC sono i più clamorosi. A San Gallo, nel 2012, un caso di trasferimento con armi e bagagli in casa democentrista, subito dopo le elezioni, da parte di una esponente dell’allora PPD, era addirittura approdato al Tribunale federale.

In epoca recente hanno aderito al partito personaggi noti come l’ex presidente della Posta ed ex consigliere nazionale vodese del PPD Claude Béglé, l’ex direttore dell’USAM ed ex-consigliere nazionale zurighese Hans-Ulrich Bigler e l’ex esponente dei liberali ginevrini Charles Poncet, che in ottobre era stato eletto al Nazionale ma poi ha rinunciato per continuare l’attività nel Parlamento cantonale. L’UDC è diventata un treno su cui salire per i delusi e gli emarginati dai loro partiti o, più prosaicamente, per chi è stato bloccato da vincoli statutari sulla durata dei mandati e ha trovato nella sponda democentrista un’opportunità per rilanciare la propria carriera. Il caso ticinese è abbastanza emblematico. Nell’UDC militano attivamente tre ex candidati al Consiglio di Stato del PLR: Sergio Morisoli (ora capogruppo in Gran Consiglio), Andrea Giudici (deputato liberale-radicale per quattro legislature) e Moreno Colombo (già sindaco di Chiasso, in corsa alle Federali in ottobre ancora per i liberali-radicali ed eletto domenica nel Municipio di Morbio Inferiore sulla lista Lega-UDC, dopo che il suo partito non lo voleva in corsa). L’unica vera sorpresa del rinnovo dei poteri comunali nei centri è stata la rielezione nell’Esecutivo di Mendrisio di Massimo Cerutti, non ricandidato dal suo partito, il PLR, ma rientrato a palazzo dalla porta girevole, con la sola casacca democentrista.

Intendiamoci, il fenomeno non è nuovo. In passato era stata soprattutto la Lega dei ticinesi ad approfittare dei problemi incontrati dai partiti storici a gestire le tensioni interne offrendo un’alternativa a scontenti e dissidenti, soprattutto dell’area di destra (anche l’UDC, con il passaggio alla linea blocheriana ne aveva beneficiato, ma in misura minore). Il Movimento di via Monte Boglia aveva dato asilo a diversi transfughi ed era riuscito anche a integrare nelle sue file sia persone con trascorsi parlamentari di sinistra sia altre che militavano in ambienti cattolici. «Moriremo tutti leghisti» e «tu quoque», si diceva, quando la Lega manteneva saldamente il primato relativo in Governo, cresceva in Parlamento e nei Comuni ed era il cavallo vincente su cui puntare. Adesso il ruolo di aggregatore del malcontento altrui, certificato dalle ultime elezioni, sta passando all’UDC. Parallelamente ai risultati che ne attestano l’ascesa, il partito di Piero Marchesi è diventato anche un punto di riferimento per chi cerca nuovi spazi in politica al di fuori dei partiti storici. E niente più del successo favorisce i tentativi di imitazione. Certo, le variabili sono molte e tutto può cambiare. Le urne per ora hanno detto che (forse) non moriremo tutti leghisti. Ma il dubbio che moriremo democentristi comincia a insinuarsi.

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