L'opinione

Giornali italiani di sinistra?

C’è poco da fare: che i giornalisti (o almeno la maggior parte di essi) siano di sinistra è uno stereotipo che emerge di continuo, come una «scoperta» o come una denuncia
©Fiorenzo Maffi
Enrico Morresi
Enrico Morresi
04.10.2022 06:00

C’è poco da fare: che i giornalisti (o almeno la maggior parte di essi) siano di sinistra è uno stereotipo che emerge di continuo, come una «scoperta» o come una denuncia. Così anche Robi Ronza, sul «Corriere del Ticino» del 3 ottobre. L’esistenza stessa del sindacato unico dei giornalisti italiani è data come una prova a carico. Ma si sa bene che non è così. Fino agli anni Ottanta del Novecento il sindacato dei giornalisti italiani oscillava tra due organizzazioni: la Federazione internazionale dei giornalisti, con sede a Bruxelles, di fede «liberale», e l’Organizzazione internazionale dei giornalisti, con sede a Praga, di fede comunista, propendendo generalmente per la seconda. La crisi del comunismo destò anche nei colleghi italiani il desiderio di rompere con la federazione di Praga e di aderire a quella di Bruxelles (immodestamente potrei ricordare che artefici del cambiamento furono il milanese Paolo Murialdi e il presidente dei giornalisti svizzeri, che ero io). Quarant’anni dopo emerge un dato che dovrebbe sconcertare: un’indagine svolta tra il 2012 e il 2016 dalla ZHAW, l’università del giornalismo svizzero-tedesco con sede a Winterthur, rileva che «si riconoscono complessivamente “di sinistra” il 68,1% dei giornalisti del servizio pubblico e il 61,6% dei giornalisti dei mass media privati». Chiamare i pompieri? No, è il significato di «sinistra» in questione. Per i giornalisti vale la definizione di Jürgen Habermas: devono esprimersi come «mandatari» di un pubblico illuminato, critico verso tutte (tutte!) le strutture di potere. Bravi o non bravi, saranno giudicati, alla fine, non perché sono di sinistra o di destra ma se svolgono bene la loro funzione di rappresentanza delle posizioni salienti nell’opinione pubblica.

Lo sguardo critico dovrebbe allora spostarsi sulla capacità di lettura e rappresentazione della realtà da parte dei giornalisti. E su questo punto devo ammettere di condividere le riserve espresse circa la qualità del prodotto offerto dai media italiani all’avvicinarsi della scadenza elettorale. A far problema non sono stati tanto gli editoriali, in cui primeggiavano firme di riconosciuta qualità, ma la scelta delle notizie e il risalto da dare a quelle apparentemente salienti. Quotidiani anche di buon nome si sono rivelati inclini a dar risalto a fatti o notizie sensazionali ma di fatto non sussistenti o irrilevanti. Quasi tutte le reti televisive sono state palestra di personaggi pittoreschi e invadenti. La funzione di chiarimento, che spetta al giornalista come primo dovere, ne risultava travolta, se mai qualcuno ci avesse provato. Io allora finisco col credere che sulla confezione del prodotto abbia prevalso il grado di spettacolarità circense che determinati personaggi garantivano.

Non parlo dei «social». Non li frequento, non mi interessano. Una società non può fondarsi sul pettegolezzo, al massimo tocca alle redazioni sceverare, se ve lo trova, l’elemento nuovo o importante per il dibattito pubblico. Molto, invece, andava direttamente in video o in pagina.