L'opinione

I tre volti della Pace

L'opinione di Carlo Baggi
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Red. Online
17.11.2025 17:35

Nel 53 d.C. Paolo di Tarso, scrivendo ai convertiti di Tessalonica, confermava loro che «la fine del tempo» sarebbe coincisa con un segno singolare: «Quando infatti diranno: «Pace e sicurezza», allora una subitanea rovina cadrà loro addosso…».

Al di là dei risvolti teologici e messianici, quella frase si è spesso riproposta nella storia dell’uomo e, sovente, accompagnata da quegli esiti nefasti. L’ultimo ben noto esempio furono le parole di Neville Chamberlain nel 1938, all’indomani del Patto di Monaco. Ancora una volta, nel nostro travagliato tempo, ci si trova confrontati con la prima parte di quella frase e con la speranza che la seconda non si avveri.

Esiste tuttavia un metodo di prognosi che, pur non essendo sicuro al cento per cento, permette di disporre non solo di un metro per valutare l’efficacia dell’accordo, ma anche di rilevare la presenza di eventuali insidie per boicottarlo.

Si tratta di aggirare la difficoltà del vaticinio invertendo le prospettive di valutazione. In altre parole, quando la domanda «Ci sarà la pace?», posta a corollario di un accordo tra contendenti, appare aleatoria per la presenza di molteplici fattori potenzialmente avversi, risulta più predittivo chiedersi: «L’accordo in essere è idoneo per avere la pace?».

Ciò posto, è opportuno preliminarmente determinare che cosa si celi dentro la parola «pace». In primo luogo si deve considerare che, nella lingua italiana come in altre, essa deriva dal latino pax, che a sua volta richiama pactum, ossia «patto», «accordo». Tuttavia nel diritto romano il pactum riguardava piuttosto un rapporto nell’ambito privato mentre, nei rapporti internazionali, il termine usato era «foedus». Pertanto, stipulare un trattato di pace era «foedus ferire», alla lettera «tagliare un patto», perché l’accordo veniva ritualmente suggellato con il sacrificio di un animale.

Quest’ultimo termine ci permette di arrivare a una considerazione importante, perché foedus richiama fides, ossia fiducia. Ecco dunque che il primo, indispensabile requisito della pace è dato dalla fiducia reciproca tra le parti in causa; un elemento che può essere definito l’«anima» della stessa.

Stabilito l’aspetto intimo della pace, occorre esaminarne i contenuti, perché è evidente che parlare semplicemente di «pace» è come parlare dell’anima senza il corpo, ossia di un fantasma. Il contenuto, che rappresenta il corpo della pace, è interpretabile attraverso le sue espressioni; proprio come accade osservando il volto di un essere umano e tra queste le più significative sono essenzialmente tre.

Il primo volto rappresenta la «Pace ideale», quella che è senz’altro la più ardua da ottenere, ma se raggiunta merita l’aggettivo di «perpetua». Alla base della stessa, oltre alla surriferita «fiducia», si collocano due ulteriori requisiti: la verità e la giustizia. Con verità qui non si intende la definizione di conformità a un canone giuridico o religioso, ma la consapevolezza soggettiva che le parti hanno delle proprie responsabilità e, di conseguenza, l’assoluta disponibilità di portare il patto fino alle estreme conseguenze per renderlo «giusto». Sovente, in questi ultimi tempi, si è spesso sentito parlare di «pace giusta»; una frase che è senza senso perché, in pratica, sottintende la capitolazione incondizionata di una delle parti. Nel nostro caso, invece, «giusto» significa la disponibilità ad accettare che l’accordo possa giovare anche all’avversario. Un’attitudine che in termini metafisici è definibile con il perdono, ma che in realtà non è altro che il desiderio di voler cambiare il passato per poter cambiare il futuro.

Il secondo volto è quello più realistico ed è rappresentato dalla «Pace transattiva».

Essa riprende, nelle forme proprie del diritto internazionale, la natura del contratto tra privati. Anche in questo caso gli interessati concordano reciproche concessioni. L’aspetto positivo, che questo tipo di pace offre, risiede nel fatto che le parti possono non solo operare sulle cause che connotano il conflitto, ma lasciare anche spazio a compensazioni su altri interessi o addirittura a nuovi rapporti. È il caso di una cooperazione finanziaria nella ricostruzione o di altre iniziative concrete.

Queste ipotesi garantiscono un notevole grado di successo del percorso di pacificazione perché, agli interessi politici, subentrano quelli economici.

Il terzo volto è ravvisabile nella «Pace iniqua». Si tratta di quella che non solo mostra il maggior rischio d’insuccesso, ma che anche lascia sovente aperta la strada a ulteriori e più gravi conflitti. Si verifica solitamente in due casi: il primo, dopo eventi bellici particolarmente cruenti in cui una delle parti, debellata, è costretta ad arrendersi incondizionatamente. Questa pace non rappresenta nient’altro che un rito di vendetta del vincitore sul vinto. Il secondo, quando una delle parti agisce in malafede, ossia per calcolo e senza l’intenzione di raggiungere la pacificazione. Riprendendo la metafora sopra usata, questo tipo di pace è come un corpo senz’anima, ossia un cadavere.

Applicando ora tali criteri ai conflitti russo-ucraino e israelo-palestinese, la prognosi che se ne ricava appare infausta. Il problema di base risiede nel fatto che, allo stato attuale, qualunque accordo risulterebbe «senza volto». Nel caso del primo conflitto, perché in realtà esso riguarda ormai, per interposta persona, l’Unione Europea e la Federazione Russa. Pertanto, un eventuale trattato per essere credibile dovrebbe concernere principalmente queste due Potenze.

Per quanto riguarda il secondo, la difficoltà sta nel fatto che in quell’atavico e fatale crocevia mediorientale si sta consumando uno scontro che è, e sarà, ben al di sopra della pur spinosa questione territoriale.