L’editoriale

Il voto USA rischia di sfociare in bagarre

Con l'avvicinarsi della fatidica data del 5 novembre, il Paese sembra sempre più immergersi in un clima da Far West
©SARAH YENESEL
Osvaldo Migotto
29.10.2024 06:00

Con l’avvicinarsi della fatidica data del 5 novembre, giorno delle elezioni americane, il Paese sembra sempre più immergersi in un clima da Far West, con insulti senza precedenti rivolti a Kamala Harris da parte di esponenti di spicco del Partito repubblicano, e repliche infuocate contro Donald Trump dal campo democratico.

Sembrano ormai caduti nel dimenticatoio gli appelli alla moderazione lanciati da più parti negli Stati Uniti dopo il ferimento, lo scorso 14 luglio a Butler (Pennsylvania), del candidato repubblicano alla Casa Bianca da parte di uno squilibrato durante un comizio elettorale. Evidentemente l’andamento dei sondaggi che negli ultimi giorni danno un sostanziale testa a testa tra i due principali candidati alla guida della Superpotenza ha messo in agitazione repubblicani e democratici.

Ad aprire il «fuoco a raffica» sull’attuale vicepresidente USA, con insulti di ogni genere, da quelli di carattere razzista a quelli sul suo basso quoziente d’intelligenza, sono stati Donald Trump e i suoi più fedeli collaboratori intervenuti domenica sera al Madison Square Garden di New York nel comizio conclusivo del candidato presidenziale repubblicano. Non potevano poi mancare gli attacchi contro gli odiati migranti, piatto forte della campagna elettorale dell’ex inquilino della Casa Bianca.

Eppure, nonostante le battute di bassa lega di alcuni oratori contro chi bussa alle porte degli USA, tra le tante persone accorse a New York per ascoltare Trump e i suoi fedelissimi sono stati notati anche afroamericani, latinos e asiatici. A una settimana dal voto negli Stati Uniti non vi è ormai nessuna certezza, né sul nome del prossimo presidente americano, né su come le varie comunità etniche si esprimeranno nel segreto dell’urna.

L’unica cosa sicura sono gli insulti che con sempre maggiore veemenza vengono scambiati tra i rappresentanti dei due schieramenti in campo. La Harris nel corso di una recente intervista concessa alla CNN ha sostenuto senza mezzi termini di ritenere Trump un fascista. La candidata democratica alla Casa Bianca ha basato le sue conclusioni sulle affermazioni di John Kelly, ex capo dello staff di Trump che in un libro ha riportato la famigerata frase del tycoon sui «generali di Hitler» che lui stesso avrebbe voluto. 

Toni non certo più pacati sono stati usati al comizio di Trump al Madison Square Garden, nel quale i democratici sono stati definiti «nemici del popolo». E questa la dice lunga su cosa potrebbe accadere dopo il voto se il leader incontrastato dei repubblicani non accettasse nuovamente la sconfitta, come accadde quattro anni fa. Suona come un campanello d’allarme il fatto che il tycoon abbia evocato il rischio di «nuovi brogli», come nel 2020.

Per quanto spettacolare e folcloristica (è intervenuto anche l’ex lottatore di wrestling, Hulk Hogan) sia stata quella sorta di convention repubblicana tenutasi domenica a New York, il clima di scontro se non di odio nei confronti dei democratici che ne è uscito non può che suscitare apprensione. Anche se l’eccentrico miliardario Elon Musk nel suo intervento ha cercato di tracciare un futuro di rose e fiori per gli americani in caso di vittoria repubblicana, («Allontaneremo il governo dai vostri portafogli», ha promesso agli elettori), l’America del dopo voto rischia di scivolare verso la bagarre, con possibili accuse incrociate di brogli.

La demonizzazione dell’avversario politico (al Madison Square Garden Kamala Harris è stata definita «il diavolo») non ha mai favorito il processo democratico, e di questi tempi negli Stati Uniti la preoccupante tendenza, purtroppo, è proprio questa. Trump ha promesso agli americani una nuova età dell’oro, ma l’odio politico non sembra la giusta premessa per una svolta positiva.