La posta di Carlo Silini

David F. Wallace condannato a morte dalla propria opera?

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Lo scrittore americano in una foto del 2006. © Wikipedia
Carlo Silini
09.03.2022 06:00

Nessuna critica sarà mai altrettanto intima quanto quella di chi esercita il medesimo mestiere del soggetto criticato: l’attore, il regista, il poeta, il romanziere. In ambito narrativo, si potrebbe prestare questo assunto a una delle opere più famose della contemporaneità: Il re pallido di David Foster Wallace. E visto che l’autore in questione si è suicidato senza aver concluso tale libro, ci si potrebbe chiedere se un nesso logico esista o no tra la sua morte e la sua opera. A mio avviso Wallace si è ucciso perché quel romanzo lo condannava letteralmente – oltre che letterariamente – a morte. Non si è tolto la vita perché era depresso o disperato, ma perché in quel capolavoro aveva individuato un fallimento definitivo. Il curatore dell’opera, Michael Pietsch, in una nota introduttiva scrive: «Pur non essendo nel modo più assoluto un’opera compiuta, Il re pallido mi è sembrato profondo e audace». Non è forse questa una sconfessione fondamentale? Inoltre, Pietsch precisa: «Fino a che punto il romanzo è incompiuto? Quanto avrebbe potuto esserci di più?». Su questo interrogativo, essendo il romanzo di Wallace per sua stessa ammissione concepito come incompleto, si può trarre una riflessione: come può un romanzo il cui tema di fondo è la Noia, la Tristezza, il Non succedere niente della Vita, proporsi altrimenti che come romanzo omicida, come romanzo dell’annientamento finale del suo autore?

Marco Alloni, Il Cairo

La risposta

Caro Marco Alloni, mi gira un po’ la testa. In uno scambio fra di noi su questo tema hai aggiunto: «(le mie) conclusioni inclinano a un certo azzardo, ma forse trovano una ragionevolezza meno estemporanea di quella di affermare che quando un autore si suicida qualcosa di esistenziale deve essergli andato storto. No, quando un autore si suicida è molto probabile che a suggerirglielo sia stata la sua stessa opera: a cui il corpo obbedisce tanto come vivente quanto come morente».

Concordo sul fatto che le tue conclusioni inclinino a un certo azzardo, ma lo dico con rispetto. Capisco che, essendo tu stesso uno scrittore, abbia provato a esercitare quella «critica intima» che solo chi fa lo stesso mestiere dell’oggetto della critica può formulare. E riconosco che un romanzo che racconta l’esistenza alienante degli impiegati dell’agenzia tributaria USA – uno dei quali porta il nome dell’autore, David Foster Wallace – possa suggerire l’idea che, per lo scrittore americano, Il re pallido non fosse affatto finzione letteraria, ma fossero pagine della sua vita propedeutiche alla sua morte. Inoltre è suggestivo immaginare che il finale «logico» del romanzo si sia realizzato al di fuori del libro, creando un capolavoro tragico che fonde indissolubilmente la scrittura allo scrittore, l’opera all’autore.

Ma mi sembra un tributo eccessivo all’amore per l’arte anche per un genio letterario come Wallace che, come tutti i suicidi, porta con sé nella tomba il mistero indicibile della propria fine.