Le traduzioni antidoto al silenzio

L'EDITORIALE DI MATTEO AIRAGHI
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
01.10.2018 06:00

di MATTEO AIRAGHI - Gira e rigira dalla Bibbia non si poteva prescindere. D'altronde, si sa, «il libro dei libri » è da tempo immemorabile inattaccabile in vetta alla classifica del testo più tradotto del mondo e spesso rappresenta il più ambito campo di battaglia per chi si vuole cimentare nella sua versione in lingue diverse dall'originale. Dalle origini sino ad oggi: basti pensare al mezzo secolo di «duello conradiano » con «Qohélet» di Guido Ceronetti in cui il grande traduttore e intellettuale ha continuato instancabilmente a confrontarsi con il «tumulto verbale» e la «disperata lucidità» del grande poema biblico ebraico. Così quando si è trattato di scegliere (nel 1991) una data per celebrare la Giornata mondiale della traduzione si è optato per il 30 settembre, giorno di San Girolamo, il padre e dottore della Chiesa patrono dei traduttori cui dobbiamo la Vulgata, la prima traduzione completa in lingua latina della Bibbia. Nel 382, su incarico di papa Damaso I, il dotto anacoreta affrontò il compito di rivedere la traduzione dei Vangeli e successivamente, nel 390, passò all'Antico Testamento in ebraico, concludendo l'opera dopo ben 23 anni. Ogni 30 settembre dunque la Giornata internazionale della traduzione ci invita a riflettere sull'inestimabile contributo che i traduttori di tutto il mondo forniscono alla società, a riconsiderare l'importanza di questa insostituibile mediazione culturale su cui si fonda l'intero sistema del sapere occidentale e che soprattutto in un Paese con le caratteristiche uniche della Svizzera riveste un ruolo chiave anche per ragioni di coesione nazionale. Perché purtroppo, in barba all'eredità del l'instancabile San Girolamo, per coloro che si impegnano, usando una celebre espressione di Umberto Eco, a «dire quasi la stessa cosa» permettendoci di comprendere un testo nato in un'altra lingua, sono davvero tempi grami. Stritolato dagli ingranaggi dell'industria culturale contemporanea il mestiere del traduttore è quotidianamente bistrattato e mal pagato, le buone traduzioni vengono apprezzate solo di rado – quando non passano del tutto inosservate – mentre quelle scadenti ci mettono un attimo a diventare oggetto di critiche o di battute senza fine. D'altronde inesorabilmente avviluppato tra il decodificare e il ricodificare, fin dal Cinquecento l'atto di tradurre è stato attraversato da una contraddizione tra i termini «traductio» e «translatio» e sembra che il primo a tracciare la famosa o famigerata equivalenza fra «traduttori» e «traditori» sia stato, proprio nel 1549, il poeta francese Joachim du Bellay nella sua Défense et illustration de la langue française dove accenna ai «mauvais traducteurs... vrayement mieux dignes d'estre appellés traditeurs que traducteurs ». E con queste premesse non c'è da sorprendersi se nell'epoca dell'appiattimento, della superficialità e della banalizzazione dilagante dei traduttori non si curi più nessuno, se il loro silenzioso ma fondamentale lavoro passi per ovvio e scontato e se i loro nomi (quanti li citano al momento di recensire un saggio o un romanzo?), tranne rarissime eccezioni rimangano del tutto sconosciuti. In attesa che prima o poi dell'Ulisse di Joyce o del giovane Holden di Salinger si occupi un pratico ed economico algoritmo digitale. E dire che solo grazie al lavoro dei traduttori possiamo leggere opere di autori di ogni tempo: dai classici latini e greci alle grandi letterature di ogni angolo del mondo. Per non parlare del loro ruolo nella peculiare e delicata realtà elvetica plurilingue e multiculturale che fa sì, come ricordava il poeta e traduttore Vanni Bianconi cui dobbiamo quell'autentico gioiello in questo campo che è il festival Babel, che «la lingua della Svizzera è la traduzione» e per essere viva deve farsi interprete delle voci della sua confederazione di culture: il tedesco e i suoi dialetti svizzeri, l'italiano e il francese, il romancio e le lingue dell'immigrazione con le varie ibridazioni del parlato. Si capisce così perché nel suo recente passaggio in Ticino il neodirettore della Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia, Philippe Bischof, abbia sottolineato che «la comprensione è sempre anche un'opera di traduzione. E a maggior ragione appare sorprendente che l'importanza della traduzione letteraria non sia ancora universalmente riconosciuta. Nella Svizzera plurilingue dobbiamo attribuire particolare importanza a questo aspetto, in quanto gli scambi diretti che oltrepassano i confini linguistici contribuiscono in misura sostanziale alla coesione nazionale». Ciò costituisce uno dei motivi per cui Pro Helvetia sta potenziando notevolmente il sostegno alle traduzioni. Traduzioni più numerose e, soprattutto, di qualità offrono un duplice vantaggio: non solo contribuiscono alla diffusione della letteratura elvetica all'interno dei confini nazionali, ma offrono anche l'opportunità agli autori svizzeri di farsi conoscere all'estero. Una forma di sacrosanto rispetto perché come disse George Steiner, grande critico e teorico della letteratura, «senza la traduzione abiteremmo in province confinanti con il silenzio».