L'editoriale

L'economia globale si interroga sulla Cina

Secondo una simulazione del Kiel Institute, una brusca interruzione del commercio con il gigante asiatico provocherebbe una contrazione del PIL della Germania del 5% nel breve periodo, per stabilizzarsi attorno all'1,5%
Generoso Chiaradonna
23.02.2024 06:00

Una brusca interruzione del commercio con la Cina provocherebbe una contrazione dell’economia tedesca del 5% nel breve periodo. Il crollo è paragonabile a quello successivo alla crisi finanziaria o alla crisi COVID. È questo il risultato di uno studio di simulazione condotto dal Kiel Institute for World Economy, un centro di ricerca tedesco tra i principali a livello internazionale e continentale proprio per capire quanto costerebbe – in termini di PIL (Prodotto interno lordo) – un decoupling (disaccoppiamento) dell’economia tedesca da quella cinese. Nel medio-lungo periodo, stando sempre allo studio pubblicato lo scorso dicembre, la perdita dovrebbe stabilizzarsi intorno all’1,5% annuo. Una riduzione graduale e prudente delle relazioni commerciali eviterebbe comunque gli elevati costi iniziali. Questo per dire che è sì costoso perseguire una strategia di separazione netta tra le due economie, ma non sarebbe devastante. Almeno, secondo gli studiosi del Kiel Institute. Nella sua analisi, il gruppo di ricerca ipotizza una economia globale divisa in blocchi commerciali ostili. L’Unione europea, gli Stati Uniti e gli Stati del G7, da un lato. La Cina con i suoi alleati, in particolare la Russia, costituirebbe il secondo blocco contrapposto. Tutte le relazioni commerciali dirette tra questi due blocchi sarebbero praticamente azzerate. Esisterebbe però anche un gruppo di Stati neutrali, tra cui Brasile, Indonesia e Turchia a fare da camera di compensazione, con cui entrambi i blocchi continuerebbero a commerciare.

Da alcuni anni, almeno dal 2008, la deglobalizzazione non è più una parola tabù confinata per lo più in ambienti minoritari della politica o dell’economia. La crisi sanitaria legata alla COVID-19, la guerra in Ucraina, il conflitto medio orientale, le incursioni piratesche nel Mar Rosso unite a una tensione crescente tra Stati Uniti e la Cina per l’isola di Taiwan hanno riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il tema della messa in discussione del processo di globalizzazione economica. Le statistiche della Banca mondiale, per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri, l’interscambio commerciale di beni e servizi a livello internazionale e lo stock di attività e passività finanziarie in realtà non stanno ancora registrando un cambio di rotta drastico di tale processo. La galoppata del commercio internazionale è però rallentata. Nel decennio precedente tale corsa era stata alimentata dall’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (2001) e prima ancora dal crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’ex Unione sovietica. L’invasione russa dell’Ucraina e il susseguente scontro con l’Occidente hanno riportato indietro l’orologio della storia ricreando blocchi commerciali e aree d’influenza politica. In questi anni sono sorti neologismi rigorosamente in inglese con i quali bisognerà prendere confidenza: slowbalisation, per indicare questa nuova fase di globalizzazione rallentata; nearshoring, ovvero la rilocalizzazione della produzione in aree geografiche più prossime; friendshoring (in Paesi politicamente «vicini») o addirittura il backshoring, il rimpatrio di attività estere entro i confini nazionali. Tutto ciò è un processo in atto che potrebbe essere accelerato anche da scelte nazionali o continentali.

Per tornare allo studio del Kiel Institute, il tema di ridurre l’interdipendenza con la Cina non è solo una questione tedesca. La Germania è probabilmente il Paese europeo più esposto nei confronti dell’economia cinese. Eppure, si sta seriamente ragionando di valutare l’impatto di un abbandono ex abrupto delle relazioni con Pechino. Anche gli Stati Uniti si stanno interrogando per ragioni più geopolitiche e di lotta tra superpotenze su questo scenario. Il termine decoupling, disaccoppiamento appunto, è stato coniugato in ambienti accademici e diplomatici nordamericani. Ma anche l’Unione europea si interroga sulla forte dipendenza della sua economia con quella cinese tanto che la Commissione l’anno scorso ha stilato le linee guida per il cosiddetto de-risking, ovvero ridurre i rischi ma non tagliare completamente i ponti.

E la Svizzera che ha un accordo di libero scambio, unico nel suo genere, con la Cina? Nel 2019 il deputato del Centro Beat Rieder aveva presentato una mozione (accettata dai due rami del Parlamento) per chiedere un controllo sugli investimenti diretti esteri. Il timore è che il know how tecnologico di aziende svizzere finisca nelle mani di Paesi poco rispettosi delle regole di mercato. O del rispetto dei diritti umani e delle minoranze etniche, aggiungiamo noi. Nel frattempo, il Consiglio federale ha elaborato, con molta poca convinzione, un progetto di legge che rischia però di prendere polvere in qualche cassetto delle commissioni parlamentari.