La posta di carlo silini

Più che dei morti, i necrologi parlano dei vivi

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Antiche tombe a Salorino. © CdT
Carlo Silini
20.09.2021 06:00

In relazione allo scritto sui necrologi di Dario Campione (cfr. CdT del 25 agosto 2021), mi piacerebbe sapere perché mai qualcuno che sente di esprimere un sentimento, talora perfino di sofferenza e dolore per una persona scomparsa, debba farlo informando migliaia di lettori, invece di comunicarlo direttamente ai familiari. Così, il necrologio secondo me perde di valore. Sugli annunci poi rivolti direttamente alla persona scomparsa, non mi pronuncio. Per non entrare in un discorso socio filosofico e religioso».

Mario Acierno,

Lugano

La risposta

Caro Mario Acierno, cito anch’io l’articolo del collega Dario Campione (che invito a leggere per intero) quando sostiene che l’idea del necrologio «è che le parole possano superare l’assenza attraverso il ricordo. Le parole che, sole, possono estendere nel tempo la memoria». Basterebbe questo, credo, per dare un senso ai necrologi che appaiono sui giornali. Per quanto mi riguarda ho uno strano rapporto con questo genere di annunci. Sarà che a volte mi tocca rileggere le bozze delle pagine che li contengono per evitare che appaiano errori, ma col tempo – diciamo così – ho acquisito un occhio clinico a cui non sfuggono dettagli particolari. Mi è capitato, per esempio, di bloccare la pubblicazione di un necrologio in cui l’estensore del testo riusciva a polemizzare con alcuni parenti. L’annuncio di morte del congiunto, in quel caso, non voleva onorarne la memoria, ma serviva per regolare i conti con gli altri congiunti, immagino per questioni ereditarie. Nella stragrande maggioranza dei casi, tuttavia, i necrologi che leggo raccontano sempre qualcosa su chi li scrive.

È inevitabile. Tranne quando il necrologio viene preparato in anticipo dal diretto interessato, questo scritto segna il primo passaggio di consegne dal morto ai vivi: «Fate voi, scrivete voi, io non posso più». Le frasi che li accompagnano spesso sono simili e fanno riferimento ai Vangeli o a testi letterari che parlano della morte in termini di luce, di speranza, di dialogo che continua per vie suggestive e misteriose tra chi c’è e chi se n’è andato. Sono parole per i vivi – come è anche giusto che sia – più che per il morto. Pensieri consolatori, o al contrario, attestati di inconsolabilità. Dicono la mancanza, la segreta speranza di colmarla, l’accettazione, più o meno serena, di ciò che è ineludibile. Naturalmente si parla anche del defunto, anche se perlopiù in modo deduttivo. Si capisce la composizione della sua famiglia, si ricostruisce il suo ambiente sociale a partire dagli annunci pubblicati da questa o quell’associazione, gruppo, istituzione di cui l’emerito faceva parte. Ma di lui si può dire poco. Gli spazi sono esigui. Abbastanza per un’espressione ricorrente e insostituibile: «Il nostro/la nostra caro/a». Rarissimi gli altri aggettivi. È finito il tempo degli epitaffi («madre amorevole», «padre laborioso», «anima colma di ogni virtù»...). Limitarli solo ai famigliari? Mi sembra troppo poco. Non apparteniamo solo alla nostra famiglia, ma anche agli amici, al villaggio, al cantone, al mondo. Giusto che tutti sappiano quando togliamo il disturbo.