Un mondo dove i numeri non bastano

di MATTEO AIRAGHI - Può darsi che Benjamin Disraeli non avesse tutti i torti quando coniò uno di quei motti spesso evocati dai britannici secondo il quale «esistono tre tipi di bugie: le bugie, le bugie sfacciate e le statistiche». Al di là dell'inevitabile sorriso è giusto tuttavia premettere che anche in campo umanistico e culturale sarebbe solo aprioristico snobismo intellettuale guardare con diffidenza tutto ciò che contiene qualche numero e qualche percentuale, soprattutto in un Paese come il nostro dove la scienza che misura quantitativamente i fenomeni sociali ha raggiunto un ruolo di eccellenza e di serietà indubitabile anche grazie al minuzioso lavoro di un esempio di eccellenza a livello mondiale in questo campo come l'Ufficio federale di Statistica (UST) o ai preziosi servizi cantonali forniti dal ticinese USTAT. Così anche chi si occupa di fenomeni e dinamiche culturali alle nostre latitudini non può non salutare con giustificato interesse la recente pubblicazione della quinta edizione della «Statistica tascabile della cultura in Svizzera». Un agile opuscolo nelle quattro lingue nazionali (disponibile anche online) che in un'ottantina di dense paginette piene di cifre, percentuali, schemi, grafici e diagrammi fornisce, in forma chiara e concisa, informazioni statistiche sulla cultura in Svizzera. Principali temi trattati sono il comportamento culturale della popolazione, la fruizione dell'offerta culturale e il finanziamento della cultura da parte dei poteri pubblici e degli enti privati. Non mancano i dati attuali di tutti gli ambiti trattati, nuove informazioni sul finanziamento della cultura da parte delle fondazioni, sui musei e sull'industria dei videogiochi nonché persino le top ten dei musei, delle biblioteche, dei film, degli album musicali e dei libri di maggior successo (questi riferiti purtroppo solo alla Svizzera tedesca). Grazie alla cooperazione virtuosa tra i due uffici federali (quello della cultura e quello di statistica) i cittadini, gli operatori dei media, i ricercatori come pure gli ambienti della politica e i partner istituzionali in Svizzera e all'estero hanno a disposizione una fotografia chiara della situazione, dell'importanza socioeconomica della cultura e dei cambiamenti in atto nel nostro modo di fruirne in costante evoluzione. Una pubblicazione di questo genere tuttavia offre anche qualche ulteriore spunto di riflessione. Sarebbe infatti un errore molto pericoloso, e in un'epoca che tende sempre più alla semplificazione e all'omologazione il rischio si avverte concreto, credere di poter sempre spiegare i fenomeni culturali con numeri, classifiche, istogrammi e statistiche. Queste sono infatti soltanto una delle sfaccettature di una realtà poliedrica molto complessa, sensibile, per definizione non quantificabile e fatta di valori e di gerarchie che non sempre coincidono (per fortuna verrebbe da dire) con le cifre, le graduatorie o con il semplice riscontro economico. Per questo, senza scomodare i complicati ragionamenti filosofici e sociologici di Horkheimer e di Adorno, è legittimo rimanere diffidenti quando si sente parlare di «industria culturale» o preoccuparsi se le basi di un dibattito politico, per esempio sul tema lacerante dei finanziamenti, finisca sempre per giocarsi sull'«indotto finanziario», sulle «ricadute turistiche e commerciali», sul «valore aggiunto» generato, sul potenziale «volano di sviluppo», sul settore come «asset fondamentale» sul «circuito virtuoso» innescato dalle migliaia di visitatori della tal mostra o degli spettatori della talaltra prestigiosa e affollatissima rassegna concertistica. Quello che non si deve dimenticare quando si parla di cultura è che in questo mondo, anche se i numeri e i soldi rimangono determinanti, i valori, la qualità e l'importanza si basano anche su criteri e dinamiche che non sempre e non per forza coincidono con quelli di cifre, classifiche e statistiche di crescita. Così, anche se di questi tempi può suonare vagamente eretico, dovremmo ricominciare a interrogarci sul fatto che nel mondo della cultura intesa come «conoscenza» gli aspetti essenziali non sono solo quelli che preludono ad un immediato profitto, ma sono proprio quelli il cui profitto immediato non esiste, la cui presunta inutilità costituisce la premessa di ciò che è invece utile alle persone, alla loro crescita civile e individuale, al loro sguardo sul mondo e alla loro libertà. «Essere artisti – ricorda Rainer Maria Rilke in un passaggio delle Lettere a un giovane poeta – vuol dire: non calcolare e contare; maturare come l'albero, che non incalza i suoi succhi e sta sereno nelle tempeste di primavera senz'apprensione che l'estate non possa venire». Altrimenti molto presto nessuno studierà più il greco antico, nessuno pubblicherà più libri di poesia dialettale, nessuno leggerà più i romanzi di Guido Morselli e degli affreschi di Antonio da Tradate nella chiesa di San Michele a Palagnedra si perderà anche il ricordo. E allora sì che a dispetto di qualsiasi statistica saremo tutti inesorabilmente più poveri. Come persone, come cittadini e come esseri umani.