L'opinione

«Vae Victis», Guai ai vinti!

L'opinione di Carlo Baggi
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Red. Online
04.12.2025 15:18

I popoli d’Europa sono nuovamente invitati ad assistere alla rappresentazione che la Storia sta per mandare in onda e che rientra nella serie: «La Storia non è mai la stessa, ma si ripete cambiandosi». Si tratta dell’ultima, imperdibile «stagione», che svelerà se questo Continente riuscirà a «suicidarsi», dopo essersi già impegnato in tal tentativo per due volte nel secolo scorso o se, svegliatosi dal torpore, deciderà di «cambiare canale».

Se ciò non accadrà si assisterà nel conflitto russo-ucraino, ancora per qualche tempo, a ripetuti scambi di bozze e contro bozze di accordi da parte degli Stati Uniti e della Federazione Russa. Accordi diretti formalmente a regolamentare un cessate il fuoco, ma materialmente a ricercare, in ogni caso, il maggior profitto possibile dalla situazione. Per quanto concerne invece questa Unione Europea è ormai certo che, vuoi per superare la frustrazione per il mancato riconoscimento di un ruolo nella trattativa, vuoi perché si è ormai preclusa ogni via verso la pace, dedicherà gran parte delle sue risorse economiche e finanziarie per il riarmo in vista dell’«inevitabile conflitto».

Andando indietro nel tempo e ascoltando i toni delle dichiarazioni dei leader coinvolti, si ha l’impressione di assistere alle scene del «Sacco di Roma» del 390 a.C. quando i Galli Senoni del Piceno, guidati dal loro capo Brenno, dopo aver sconfitto in campo aperto i romani, messo a ferro e a fuoco e quindi occupata l’Urbe, richiesero per il ritiro delle loro truppe un riscatto di mille libbre d’oro (pari a undici quintali).

La storia, tuttavia, ci narra che quei Galli non erano i soliti «barbari» predatori e che questi non avevano marciato su Roma per puro desiderio di bottino, ma a causa di un precedente comportamento di due ambasciatori romani. Costoro infatti, l’anno prima, erano giunti a Sena Gallica (Senigallia) per consegnare ai capi dei Senoni una protesta ufficiale per un attacco che avevano sferrato a danno della città etrusca di Chiusi, alleata di Roma. Fu come fu, quegli ambasciatori fecero seguire alle rimostranze diplomatiche le ingiurie e, dopo essere venuti alle mani, uccisero uno dei capi. Un gesto gravissimo, in quanto contrario alle norme dello «Jus gentium» (l’attuale Diritto internazionale), che garantivano tra l’altro l’incolumità per gli ambasciatori e, di conseguenza, l’obbligo degli stessi ad astenersi da azioni ostili.

La vicenda del Sacco di Roma è, tuttavia, passata alla storia non solo per l’evento in sé, ma anche perché ha regalato ai posteri due frasi immortali.

La prima, pronunciata da Brenno nel momento in cui, essendo stato accusato di aver fatto truccare la bilancia che pesava l’oro, gettò la sua spada sul piatto dei pesi gridando: «Vae victis» (Guai ai vinti!). La seconda frase fu la risposta di Marco Furio Camillo che, con veemente orgoglio e dopo aver rovesciato la bilancia incriminata, disse: «Non auro sed ferro patria recuperanda est» (La patria si riscatta non con l’oro, ma col ferro).

Considerando le attuali vicende e soprattutto i comportamenti delle parti in causa nel conflitto russo-ucraino, nulla apparirebbe cambiato dopo oltre duemilaquattrocento anni. Tuttavia, a ben guardare, si può provare un senso d’imbarazzo se, di fronte a un brutale «vae victis» da parte della Federazione Russa, si volesse riscontrare nella determinazione guerriera dell’Unione Europea l’onore e l’orgoglio, che si sprigionarono da quel «non auro sed ferro» degli antichi romani.

Si ha infatti l’impressione che se, per ipotesi, l’Ucraina decidesse di «sparigliare» la partita e accettasse unilateralmente un qualsiasi accordo che mettesse fine alla guerra, i leader europei non la prenderebbero bene. A corroborare questa sensazione contribuisce, per usare un termine alla moda, la «percezione» che un’improvvisa pacificazione potrebbe essere vista non solo come un rischio per il loro futuro politico, ma per tutto il tipo di società che stanno edificando.

Infatti, se si attenuasse il patos sviluppato dall’incombere del pericolo di una guerra, la centralità della crisi si focalizzerebbe solo sui molteplici, gravi problemi che stanno ribollendo pericolosamente nei rispettivi Paesi dell’Unione. Inoltre, risulterebbe difficile mantenere in essere, nel contempo, sia l’unica concreta possibilità di rilancio economico, determinata dalla riconversione industriale per l’avvio della macchina bellica, sia la richiesta di sacrifici altrimenti improponibili.

In ogni caso, anche tacitando queste percezioni, resta comunque evidente che codesta Unione Europea non mostri di avere la statura per «fare la Storia» in senso positivo, come la ebbe il Regno Unito del 1940, né che i suoi leader possano aspirare ad essere dei Winston Churchill.