Cosa fare

Un'opera «sottile»

Quattro appuntamenti al LAC di Lugano con «La Traviata», il 2, 4, 6 e 8 settembre
(© LAC)
Giovanni Gavazzeni
02.09.2022 10:21

La sensazione che si prova quando si ascolta la Traviata, la prima volta come a ogni riascolto, è la stessa che colpì il suo autore, Giuseppe Verdi, un colpo di fulmine. Il soggetto, ridotto a libretto da Francesco Maria Piave, proveniva dalla Signora delle camelie di Alexandre Dumas fils, narrando la storia di Alphonsine Rose Plessis, «stiratrice, modista, bustaia, salita rapidissimamente ai vertici della società parigina, nella professione di mantenuta» e morta a 23 anni di tisi. Dumas ebbe con Alphonsine una relazione, come il suo Armand Duval con Marguerite Gautier (l’Alfredo e la Violetta dell’opera di Verdi).

Lo stesso compositore aveva sperimentato l’ipocrisia della morale borghese del suo tempo, quando conviveva (le nozze vennero dopo una lunga convivenza more uxorio) con Giuseppina Strepponi, soprano dal «passato» brillante (aveva avuto un figlio dall’impresario Bartolomeo Merelli, affidato allo scultore Lorenzo Bartolini a Firenze, che morì lasciandola piena di dolore e rimorsi), bersaglio dei pettegolezzi e delle angherie del mondo piccolo di Busseto, in cui Verdi e la Strepponi vivevano.

Suggestioni autobiografiche a parte, incontestabile fu per Verdi «la tentazione nuovissima di portare sulle scene un personaggio tratto, sia pure mediatamente, dalla vita del suo tempo, senza provvederlo di piedistallo, come si faceva per i personaggi dell’opera seria», come ha spiegato con mirabile argomentazione Fedele d’Amico nel suo imprescindibile saggio, Il «coup de foudre» di Verdi (1985). Quel soggetto era irresistibile proprio a partire dall’attualità nella quale l’eroina appare còlta nella sua intimità, tanto che Verdi nelle prime trattative con la direzione del Teatro La Fenice, dove era previsto il battesimo dell’opera nella stagione 1853, aveva preteso che i costumi fossero contemporanei. Un’idea rivoluzionaria alla quale dovette rinunciare a malincuore per una retrodatazione imposta dalla prudenza censoria, a un assurdo «1700». Un’eroina che viene seguita nella sua evoluzione psicologica dai saloni delle feste effimere alla segreta intimità dell’alcova suburbana, fino alla morte per consunzione nella propria camera da letto di città. Mutazione che è anche «vocale», richiedendo la «parte» unica di Violetta quasi tre diverse interpreti nel corso dell’opera: la cortigiana dalla vocalità brillante nel primo atto, la corda lirica e patetica dell’amante che rinuncia alla felicità nel secondo, la forza drammatica, davanti alla morte affrontata con dignità eroica nel terzo.

L’opera, è noto, cadde e risorse nel giro di un anno sempre nella stessa città, Venezia: fiasco il 6 marzo 1853, più da attribuire allo stanco tenore Lodovico Graziani che alla pingue figura della protagonista Fanny Salvini-Donatelli, tisica all’ultimo stadio poco credibile; trionfo il 6 maggio 1854, «aggiustate» le parti per i nuovi interpreti, Maria Spezia (Violetta), Francesco Landi (Alfredo) e Filippo Coletti (Germont) e operate alcune varianti, come quella significativa nel celebre Addio del passato di un nuovo secondo tema sulle parole sorridi al desio. Da quel giorno Traviata «colpisce in pieno petto l’ascoltatore prima di qualsiasi analisi».

Con Traviata Verdi crea un mondo di sentimenti popolari, schietti e senza ambiguità, avvertibili già a partire dal Preludio dell’opera, «che molto evidentemente vuole annunciare il contrasto, nell’animo di Violetta, fra l’appello dell’amore e quello della vita frivola. Infatti il primo tema è affidato a una trascrizione dell’Amami Alfredo in termini da organetto, l’altro a un ingenuo saltellare di semicrome in concomitanza con quello. Risultato: qualcosa come l’argomento del dramma raccontato da un cantastorie; e come tale, quanto mai accattivante». Popolare mai assolutamente volgare, che con sintesi estrema di mezzi giunge a straordinaria espressività, come nell’introduzione all’ultimo atto: una nuda melodia accompagnata, ritratto dell’eroina consunta. Un preludio «sottile» come lo definì il critico musicale francese Camille Bellaigue all’amico compositore Arrigo Boito, librettista e amico devoto della maturità verdiana. «Applaudo alla parola sottile», scriveva Boito, «applicata al preludio dell’ultimo atto della Traviata. Sottile nel senso latino di gracilis, exilis, è veramente l’epiteto necessario per caratterizzare quella commoventissima pagina: «Tu forse senza saperlo hai intuito un modo di dire della lingua italiana», per significare uno che muore tisico noi diciamo: muore di mal sottile. Quel preludio par che lo dica coi suoni, con quei suoni così acuti e tristi ed esili, quasi senza corpo, eterei, malati di morte imminente. Chi avrebbe potuto pensare ch’era in potere della musica di realizzare l’ambiente d’una camera tutta chiusa verso l’alba, d’inverno, dove si veglia un malato, prima che fosse scritto quel preludio? Quel silenzio! Quel silenzio quieto e penoso fatto di suoni! L’anima della morente legata alla salma da un sottilissimo filo di respiro! E che ripete prima di staccarsi l’ultima rimembranza d’amore!».