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Il futuro sottopelle di Bally

L’archivio storico dell’azienda di Caslano diventa epopea digitale
© Bally Archivio
Augusto Bassi
23.04.2022 06:00

Quando scrive di lusso, che ne sia consapevole o meno, il giornalista è costretto a ricomporre delle fratture, a rendere fluide rigide dicotomie e a rilanciare i loghi dei marchi come variopinte spirali per stati di ipnosi. Grazie ai consacrati unguenti della brandizzazione, patacche fabbricate in officine bengalesi, dove la manodopera costa 0,23 dollari all’ora, sui magazine modaioli acquistano magicamente i crismi dell’esclusività mentre fashion influencer che improvvisano marchi di accessori a loro nome vengono magnificati come visionari.

Bally incarna il lusso autentico, la riuscita fusione fra craftsmanship e moda, fra identità territoriale e respiro globale

Questo accade perché il lusso è ormai percepito dai più – lettori, consumatori e social addicted – come suggestione, se non come allucinazione, e la suggestione rifugge approcci analitici. Nel momento stesso in cui il sarto posò ago e filo e decise di farsi chiamare stilista iniziò il graduale scollamento fra saper fare e saper riconoscere, fra qualità reale e qualità percepita. Vi sono tuttavia brand che in forza della loro stessa storia manifatturiera incarnano il lusso autentico, ovvero la fusione riuscita fra craftsmanship e moda, fra prammatica artigiana e innovazione tecnologica, fra identità territoriale e respiro globale. Bally ne è l’emblema. Nata nel 1851 come fabbrica di nastri a Schönenwerd, nel Canton Soletta, l’azienda elvetica si è distinta attraverso i secoli come architetto della pelle e come uno dei produttori di calzature più prestigiosi del pianeta – rappresentando la Svizzera nelle Expo degli anni 30 - ed è oggi un brand da total look, che spazia dalle calzature, agli accessori, all’abbigliamento.

Siamo stati in visita al quartier generale di Caslano per una testimonianza più avvertita sulle benemerenze dell’azienda e per indagare la sua transizione digitale, che prevede una totale conversione del ricchissimo archivio storico, il cui portato culturale trascende il settore merceologico di riferimento per farsi patrimonio universale. «Siamo un marchio svizzero aperto al mondo», esordisce aforisticamente Nicolas Girotto, chez Bally dal 2015, prima come Chief operations officer e quindi come Ceo dal maggio del 2019. «Ci facciamo interpreti di un lusso understated, che trae ispirazione dall’arte e dall’architettura e che attraverso un registro di pulizia formale esalta il piacere delle cose fatte bene. Certo calzature e accessori rappresentano sempre il nostro core business, il veicolo privilegiato per far conoscere la nostra perizia esecutiva, ma negli ultimi dieci anni il ready-to-wear si è raddoppiato e ho l’ambizione di potenziarlo ulteriormente. Amo soprintendere con il mio gusto le collezioni Bally, ma ho sempre lasciato piena libertà ai nostri designer e così farò con Rhuigi Villaseñor, il nostro nuovo creative director.

Come rendere fruibili tutti i contenuti dell’archivio Bally che raccoglie 171 anni di storia? La risposta è nata a Manno presso il LifeStyle-Tech Competence Center (LTCC). Coinvolti, oltre a Bally e la sua Fondazione, i partner Università della Svizzera italiana (USI), Microsoft Research Team, Hyphen e Moresi.com. L’obiettivo è creare un archivio digitalizzato che vada oltre alla mera catalogazione e salvaguardia dell’informazione. Infatti, con l’archivio digitalizzato si è voluto, prima di tutto, agevolarne l’utilizzo. Utile risposta alle future esigenze accademiche e opportunità per informare, in modo intelligibile, il grande pubblico.

Al di là delle opportunità di mercato», prosegue Girotto, «la confezione permette di delineare con maggiore accuratezza lo stile del brand e di comunicarlo con più viva eloquenza. Ne è testimonianza il fatto che la nostra clientela passa con naturalezza dalle scarpe ai cappotti, dalle borse agli abiti, perché apprezza la coerenza espressiva e qualitativa del marchio. Certo questo ampliamento richiede strategie che spesso sfuggono a chi osserva dall’esterno. Le boutique, per esempio, vanno ripensate per integrare i camerini, che inizialmente non erano previsti». E chiunque abbia esplorato i tre piani della Bally Haus di via Monte Napoleone angolo via Manzoni a Milano, progettato dallo Studio Casper Mueller Kneer Architects, avrà apprezzato quali attenzioni siano riservate al cliente del prêt-à-porter. Tuttavia, è sempre sull’eccellenza calzaturiera che il magistero Bally posa i piedi a terra e imbocca nuove strade: «La scarpa definisce il dna Bally e ne siamo orgogliosi. Tutti i modelli sono sviluppati e realizzati internamente qui a Caslano in dialettica creativa con il centro di sviluppo di Scandicci, Firenze.

Dal disegno, al modello 3D fino al controllo qualità, foggiati nei migliori pellami da noi stessi selezionati. Ogni scarpa richiede 200 passaggi manuali e le manovie a pochi metri da questo ufficio rappresentano il punto di incontro fra alto artigianato e manifattura meccanizzata. Per le maestranze sono previsti dai 3 ai 5 anni di formazione e abbiamo 17 anni di anzianità media». L’insediamento di Girotto come Ceo ha coinciso anche con una straordinaria propulsione digitale dell’azienda: «La pandemia ha accelerato un processo già in corso, ovvero la creazione di un ibrido efficiente fra fisico e digitale. Dalla comunicazione alla vendita. Le nuove generazioni hanno sensibilità differente rispetto alla mia e i canali devono evolversi di conseguenza seguendo vettori diversificati. In questa transizione ci aiutano i nostri stessi dipendenti, poiché la digitalizzazione si diffonde spontaneamente in tutta l’azienda grazie ai più giovani. Questo non significa che i negozi andranno a sparire, ma che i social e l’online saranno vivacizzati per attirare chi non segue solo il cerimoniale d’acquisto più tradizionale.

Da lì poi si potrà creare un sentiero verso la boutique, perché il nostro resta un prodotto da toccare con mano e che va saputo raccontare. Di circa 900 punti vendita nel mondo, abbiamo 300 monomarca, dei quali 160 gestiti direttamente da noi e per questo ci teniamo a formare autentici ambasciatori Bally, che non si limitino a fare i meri porgitori, ma sappiano piuttosto comunicarne i valori caratterizzanti». In questo processo di ibridazione generativa, di fusione fra memoria e futuro, fra ecosistemi tangibili e virtuali, la digitalizzazione dell’archivio è punta di diamante: «Grazie al connaturato rigore svizzero», racconta Girotto, «i responsabili dell’archivio Bally hanno operato con incredibile precisione nel corso dei decenni, offrendoci ordinamenti e riordini molto accurati. Tuttavia, parlando di una storia lunga oltre 170 anni con 60mila pezzi prodotti più un migliaio di poster, maneggiarlo non era per niente facile. Nella fruizione come nella condivisione risultava poco accessibile. Così, in collaborazione con l’Università della Svizzera italiana (Usi) e Hyphen abbiamo deciso di organizzare un percorso completo di digitalizzazione degli artefatti.

Ma come anticipavo, non solo di collezioni: Bally è stata un’avanguardia anche nel marketing, una fra le prime aziende a servirsi di grandi graphic designer e fotografi, come Bernard Villemot e Gunter Sachs, per le proprie campagne pubblicitarie. In considerazione del giacimento di innovazione industriale e sociale presente nell’archivio, il progetto non si limita quindi a essere un agile moltiplicatore di idee per i nostri designer, ma anche una miniera di informazioni sulla cultura del territorio». Salutiamo Nicolas Girotto - che scopriamo essere anche appassionato motociclista, con un garage che meriterebbe una puntata a parte sull’eccellenza manifatturiera – e ci trasferiamo al LifeStyle-Tech Compence Center (LTCC) di Manno per conoscere la squadra che lavora sull’archivio digitale. Veniamo accolti da Jelena Tasic Pizzolato, managing director dell’LTCC - un laboratorio di competenze multimediali al servizio delle aziende che operano nella moda, nel food, nel design e più in generale nel lifestyle, con partner del livello di Microsoft e Accenture - da Maria Aguado Cabrera, Heritage and Innovation Director di Bally e da Beatrice Carducci, incaricata dal Lifestyle-Tech Competence Center per l’esecuzione della digitalizzazione. Entrati nell’atelier digitale troviamo subito la storia della calzatura in tutta la sua concretezza.

Un distillato di anni 30, per donna e per uomo, fra cui spiccano due superbe spectator shoe del 1932 bianche e marroni a coda di rondine con una deliziosa lavorazione full brogue. La scarpa, oltre alla forma, porta ancora la referenza prodotto originale, con tutte le caratteristiche vergate a mano, la scritta Partie No.09226 e il prezzo di vendita. I lotti da fotografare vengono recuperati dall’archivio di Schönenwerd per successioni tematiche o cronologiche, alloggiati in una stanza con temperatura e umidità controllate, e quindi immortalate scarpa per scarpa attraverso 24 chirurgici scatti su un tavolino girevole. Per le borse viene appeso un filo al soffitto cui si aggancia l’artefatto per farlo galleggiare e quindi si procede con la camera. Le immagini in altissima risoluzione acquisite non necessitano di post-produzione e potranno essere scannerizzate, indicizzate, taggate e dotate di QR code per essere maneggiate con immediatezza.

Beatrice e le sue collaboratrici arrivano a fotografare 50/70 manufatti al giorno, ma l’archivio è così ricco che la conversione verrà terminata nel 2027. Il pannello programmatico alla parete recita: «From Heritage - to Innovation: conservation, enrichement, accessibility», come sintesi di un’ispirazione che si prefigge di conservare, esaltare e rendere più accessibile l’itinerario produttivo del marchio. «Preservare l’archivio è stata la nostra prima preoccupazione», ci spiega Maria Aguado Cabrera. «Digitalizzarlo significa infatti allungargli la vita». Veniamo accompagnati nella stanza alloggio di campioni storici da cui Maria estrae gli stivali Reindeer originali, indossati da Tenzing Norgay durante la prima scalata del monte Everest nel 1953. «Siamo nati sulle Alpi svizzere e il nostro intimo rapporto con la montagna ci ha permesso di produrre calzature al top delle performance in condizioni estreme». Le realizzazioni speciali o bespoke commissionate a Bally nel corso della sua storia furono numerose e Maria ci racconta delle scarpette da punta realizzata per l’Opera di Zurigo alla fine degli anni 30 e di clienti celebri, come Grace Kelly.

Ma la storia dell’impresa narra anche di incursioni innovatrici in altri ambiti, nel solco progressista del fondatore Carl Franz Bally: l’azienda ha sempre utilizzato il proprio know how per esplorare e far progredire nuovi ambiti della conoscenza e dell’industria. Per esempio, il vetro in plexiglass del celeberrimo Moonwatch – l’Omega Speedmaster calibro 321 che sbarcherà sulla luna nel 1969 con l’Apollo 11 – capace di resistere a vibrazioni, decompressioni, ed escursioni termiche spaziali, fu realizzato a partire dalle ricerche svolte dal Bally’s Chemical Technical Department per un vetro acrilico. Parola e schermo passano infine alla brillante Beatrice Carducci che ci addottora sulle possibilità concrete di questa traduzione dell’archivio nell’idioma digitale. Sceglie un pattino blu da hockey del 1932 e inizia a ruotarlo. La scarpa può essere osservata nel dettaglio, da ogni angolazione e grazie al tagging, il cartellino originale che avevamo letto sulle spectator diventa un metadato fruibile per categorie. Basta per esempio inserire il tag blu, per avere tutte le scarpe realizzate in questo colore nella storia dell’azienda. Ma ci si potrà muovere anche per materiali, tipologie, destinazioni d’utilizzo, etc. Un patrimonio a portata di click dedicato non soltanto agli addetti ai lavori, ma in futuro anche a buyer e clienti, che avranno l’opportunità di percorrere a ritroso e trasversalmente una saga manifatturiera con pochi eguali.