La passeggiata improvvisa

Salgo sullo smart-taxi senza autista, arrivato puntualissimo. In anticipo pago qualche anno di viaggio - la destinazione non è importante, la quantità di tempo invece è fondamentale in tutte le transazioni - usando il mio smartphone e prelevando i miei risparmi dal mio smart-conto blindato nei meandri più cripto-tenebrosi di Internet, luoghi virtuali dove nessuno oramai si addentra più, a parte i programmatori di mestiere, o gli hacker. Inizia così il mio viaggio da Smartville fino a... dove? Poco importa. Necessario è viaggiare. Durante la corsa approfitto automaticamente delle smart-opportunità che si accendono sullo schermo e negli auricolari: compro una smart-casa, affitto uno smart-ufficio, frequento smart-amici e ho persino una smart-moglie con smart-figli, alcuni già consegnati, altri prenotati. Tempo fa, non ricordo esattamente quando, mi hanno promosso al pacchetto Premium: quello con le smart-amanti e altre inconfessabili smart-follie. È stato divertente. La mia è pigrizia. O meglio: condiscendenza mista a languore. Permango immobile in questi raffinati rituali digitali dalle sfumature colonialiste, lasciandomi sedurre dalla voce di una giovane indiana che conversa con me da un call center di Tech City, sorprendendomi - sempre meno - che ogni mia preferenza venga da lei compresa all’istante. Lo smart-taxi corre nella notte. All’improvviso l’interlocutore dei miei languori, curiosamente quando le mie facoltà di psico-immuno-resistenza risultano più insonnolite, cambia: una voce bassa e ferma, calda e virile mi promette un gruzzolo di felicità quotidiana. Dice proprio così: «felicità quotidiana». Qui siamo molto oltre le proposte commerciali della ragazza di Tech City. Siamo, oserei dire, nel marketing metafisico. Subito l’offerta si cristallizza in un contratto trapuntato sul mio QI, termini e condizioni mi sono così familiari - anche se non le ho mai lette - che accetto d’istinto. Un raptus. Me la sbrigo con la scansione della retina, capire non è importante, perché tutto è inutilmente garantito da normative sulla privacy, da marchingegni giuridici, dai Diritti Umani. Ricevo degli smart-occhiali (da chi? sul taxi non c’è nessuno a parte me) e grazie ad essi mi trasferisco nella mia nuova smart-villa sulla scogliera dove incontro persone che corrispondono esattamente ai miei desideri mondani e ai miei gusti più profondi, quelli che non si osa confidare nemmeno a se stessi. Dal brillante direttore di un Museo di Storia naturale a una fascinosa musicista orientale poliglotta. La smart-moglie da mettere nel CV è ora solo il ricordo di una funzione, e così le smart-amanti. Mi ritrovo imbrigliato nel piacere intellettuale e cognitivo più sfrenato, d’incanto esiste solo gente che mi mette di buon umore e pensa esattamente come io penso sia magnifico pensare. Sono nell’Atene di Socrate, nella Firenze dei Medici, nella Vienna di Adolf Loos. Sono sulla cresta di un’onda dalla quale osservo l’universo. Basta non togliere gli smart-occhiali, nemmeno quando si dorme, perché attraverso di loro i sogni vengono registrati e le informazioni che da essi si ricavano vengono distillate in un processo tanto strabiliante quanto segreto.

Off-line
Una mattina, al risveglio da quello che sembra un sogno, mi ritrovo in uno smart-rifugio nel cuore delle Alpi. La brama di uscire all’aperto, nudo, a far respirare una boccata di ossigeno a tutti i pori si fa subito sentire potente. È davvero irrestibile, poiché arriva da un corpo estenuato che i farmaci di sintesi non riescono più a ringalluzzire. Esco per i sentieri. L’aria è come la mano di un artigiano che lavora una massa soffice per far nascere un nuovo - e antico - essere umano. Pioviggina sulla mia pelle. Togliermi gli smart-occhiali, poco dopo il risveglio e per una ragione sconosciuta, ha generato in me un fare qualcosa di meno intelligente: sono nudo sotto la pioggia, i miei piedi sono sporchi di terra: è l’esperienza più sublime e sensata di un’esistenza. Mi è chiaro: anche se alcuni spostamenti «improvvisati» sono accuratamente calcolati nel Programma di Felicità Quotidiana, io questa volta mi sono perso davvero. Era impossibile prevedere, per il Programma, che in un solo un giorno avrei camminato tanto a lungo, sotto una pioggia sottile, valicando monti, fino ad arrivare a un villaggio abitato da persone di ogni età. Da tempo non vedevo anziani e bambini, e nemmeno mi stupiva la loro mancanza. Sono ora in un accampamento di edifici in legno dalle tinte sfumate, punto d’arrivo di una carovana di esistenze - brevi, lunghe, acerbe, sfinite, allegre - che per qualche capriccio del destino sono cadute fuori dal Programma di Felicità Quotidiana, oppure l’hanno percorso fino a farne il giro completo. Qui al villaggio per costruire gli edifici si utilizza una schiuma isolante bio-ecologica, bio-mimetica e bio-evanescente che a contatto con il cielo di montagna si solidifica. L’edificazione avviene con pompe invisibili che iniettano nella realtà alloggi fantasiosi. Qui, i vestiti volano sempre, si lavano e s’asciugano con il vento. Senza obbligo li indosso e sorrido, essi sono un insieme di bio-molecole che si adagiano sulla soglia della mia vita, sulla mia pelle. Quanto di più sensitivo i miei pori abbiano mai gustato. Stanno mettendo in piedi una scuola. Gli spazi, qui al villaggio, escono dalle gesta di alchimisti laici: melodici luoghi di vita sensazionalmente accoglienti, tutti distinti, insoliti, belli e unici, e inattesi. Non seguono linee conosciute: sono avvolgenti, malleabili. E luminosi quando io lo voglio. Lo sguardo e la mente si sollazzano, qui, come quelli di un bimbo. Le linee di un disegno che quasi, nella mia vita di prima, mi spaventavano, diventano adesso emozioni che si strutturano via via fino alla gioia. Sono appagato: dimentico la tecnologia che pure intuisco impiegata in questo mondo che è naturale nella misura in cui gli abitanti dimenticano di essere artificiali. Una tecnologia che non assomiglia più a un deus ex machina, ma a un dono. Gli edifici nascono così dal suolo che li ospita, crescono avvolti nella vegetazione e ciò che prima assomigliava ad un villaggio nell’Eden ora mi ricorda una città le cui dimensioni svaniscono all’infinito. Scivolo lungo una prospettiva di palazzi lucidi, opachi, rigorosamente adagiati su delle nuvole. L’uomo ha sempre costruito sulle nuvole. La tecnologia è stata soltanto un lungo processo di auto-consapevolezza: la scala che si butta via dopo essere saliti. Nel villaggio i mezzi a disposizione implementano le capacità esattamente là dove si pescano i pesci più sani e si lasciano quieti gli squali. Proseguo il cammino in questo luogo sempre più mio. Mi regalo dei prodotti freschissimi cresciuti tra le radici di questa terra sincera. Mi infilo nelle tasche senza fondo di questi vestiti fatti d’aria e di gioia intere manciate di piccoli e rotondi frutti color dell’indaco. Raggi solari mi accarezzano le mani. Ma la pioggia sottile cessa all’improvviso. Uno smart-taxi si materializza di fianco a me. È tempo di tornare a Smartville, dove sembrerebbe necessario, mi dicono, riversare questa esperienza che sto vivendo. Irrequieto, salgo sullo smart-taxi che mi deposita in mezzo a una festa dove tutti sono curiosi di sapere dove sono stato. Nei loro sguardi percepisco quel particolare e sterile interesse generato da secoli di noia, mascherato così bene da affinità elettiva. Il Programma di Felicità Quotidiana è davvero troppo perfetto per me. Non lo reggo. Mi asciugo il sudore dalla fronte, prendo un whisky dal vassoio del cameriere, col bicchiere mi avvio verso la toilette. Davanti allo specchio infilo una mano in tasca, i polpastrelli toccano piccole e morbide sfere rotonde: sono i frutti color dell’indaco. C’è anche un biglietto, piegato in quattro, dove prima di non andare via avevo trascritto i versi di un poeta: «Se non dovessi tornare, sappiate che non sono mai partito. Il mio viaggiare è stato tutto un restare qua, dove non fui mai».
/ Davide Macullo
/ Foto di Corrado Griggi