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Nel regno del cashmere

Da Lugano a Kathmandu e poi nel mondo: l’epopea glocal di Patrick Garbini e di Purest
Augusto Bassi
18.10.2021 18:22

Ascoltando la storia di Patrick L. Garbini dalla sua voce, si potrebbe ripescare qualche aforisma sul viaggio, magari di Borges. Oppure si potrebbe citare il padre di Fedor Konstantinovic Godunov Cerdiyncev de Il Dono di Nabokov, grande entomologo ed esploratore. Perché l’itinerario esistenziale di Garbini è schiettamente romanzesco. Tuttavia, la placida assennatezza con cui mi viene raccontato, unita alle latitudini che ne hanno definito la cifra imprenditoriale, suggeriscono di immergersi nell’oceano di saggezza di Tenzin Gyatzo, il vivente Dalai Lama: «Apri le braccia al cambiamento, ma non perdere i tuoi valori». Dal naturale ossequio a questo comandamento spirituale, Garbini è riuscito ad armonizzare, a filare, verrebbe da dire, tradizioni culturali lontane in una fibra comune. Nato in Ticino da padre italiano e madre svizzero-francese, studi in economia all’Università della Svizzera italiana, è il fondatore e patron del marchio Purest, che produce accessori in cashmere d’eccellenza, esito commerciale di questa erranza intorno alle proprie radici. Da Lugano a Kathmandu, passando per Bhaktapur, e ritorno. E ancora verso il mondo. Un’epopea glocal. «All’età di 31 anni, dopo un breve trascorso come consulente per il Gruppo Swissair e un’esperienza da dirigente in un’azienda svedese di logistica, mi concessi un anno sabbatico per esplorare il mondo», racconta Garbini. «Da un libro acquistato a Singapore mi venne la curiosità di visitare il subcontinente indiano. In un viaggio che mi avrebbe portato da Kathmandu a Mumbai, arrivai due giorni prima del previsto a Bhaktapur, così decisi di visitare l’antica capitale del regno Malla. Scelsi una guida del luogo, Ganga, che mi fece immergere in una sinestesia di stimoli e mi accompagnò ad acquistare una sciarpa in una bottega artigiana che operava sul filato da più generazioni. Entrai in questo piccolo emporio come farebbe un turista, con curiosità fatua. E me ne andai. Poco più tardi, mentre tornavamo all’auto di Ganga, sentii come una spinta a tornare indietro. Fa quasi sorridere, oggi, ma direi che fu una chiamata del destino. Così tornai alla bottega con altro piglio e acquistai cinque sciarpe. Rientrato in Svizzera, i riscontri di mia madre, l’esperta di famiglia, furono a tal punto entusiastici che capii di avere in mano qualcosa di valore. Incubai l’idea senza pressioni e quando ritrovai per caso il biglietto da visita del proprietario dell’emporio, mi resi conto che era venuto il momento di agire. Ristabilii il contatto con Bhaktapur e ordinai dei capi campione. Quando li mostrai a Carola Monn, autorevole competenza ticinese in materia, mi chiese se poteva ordinarne alcuni per le sue boutique. Da qui ebbe inizio il progetto che oggi si chiama Purest». Dopo una saga del genere, quali sono stati i più prosaici step operativi? «La sintesi mi fu chiara da subito: design e innovazione italiani, approccio business e rigore svizzeri, tradizione e saper fare nepalesi. Una mischia vincente. Decisi di affidarmi a professionisti della comunicazione e dell’art direction per delineare il brand, così mi rivolsi all’agenzia milanese di Roberto da Pozzo; poi cercai un designer italiano di talento per creare le collezioni e mi affidai a Silvio Betterelli, sostituito in seguito da Saverio Palatella; infine selezionai i primi show room con cui collaborare, come magnete per attirare la mano dei buyer fino a toccare i nostri prodotti. Perché una volta toccata da polpastrelli educati, la qualità conquista. Al di là dei 14 micron di finezza e dei 5 centimetri di lunghezza delle singole fibre, i nostri accessori – che si sono ampliati dalle sciarpe, ai carrés, alle coperte per la casa fino ai set da viaggio – si caratterizzano per una cura maniacale in tutte le fasi di lavorazione fino al packaging finale. Non fu facile all’inizio, ma il mio partner nepalese e io trovammo la complicità operativa più efficiente per raggiungere quell’eccellenza che ci eravamo prefissati». Molti cashmere sul mercato sono di altissima qualità; che cosa vi distingue? «Produciamo in un distretto che vanta competenze secolari nel vello della capra hircus. Ci serviamo di telai a navetta mossi dalla mano dell’uomo. Abbiamo un atelier dedicato alla tessitura e uno dedicato al colore. Per la follatura utilizziamo acqua di fiume himalayano, ottima per conferire un’estrema morbidezza ai capi escludendo i finissaggi chimici. Siamo dunque al 100% eco-friendly, ma lo siamo per tradizione, non al servizio del marketing. Questo ci permette di superare i controlli qualità, sui filati e sui prodotti, eseguiti da laboratori certificati a Como e a Zurigo». E chi sono i vostri clienti? «Le boutique haut de gamme nelle principali metropoli di Occidente e Asia. Sul nuovo sito, inaugurato per i primi 10 anni del marchio, offriamo poi una piattaforma e-commerce che raggiunge un vasto pubblico. Abbiamo tuttavia un’anima bespoke che si esalta nei servizi dedicati ad aziende e a celebri marchi. Collaboriamo con prestigiosi brand di gioielleria e orologeria svizzeri, con cliniche private, compagnie aeree private, grandi alberghi, e con molte realtà finanziarie». E che cosa avrebbe ancora in animo di realizzare? «Il mio sogno è creare una Purest House, proprio a Bhaktapur, dove tutto è iniziato. Un luogo dell’anima, da arredare con suggestioni svizzere, italiane e nepalesi, fra interior design e tradizioni culinarie».