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Rivoluzione empatica

Da New York a Wil, e tra poco in Ticino: il Living Museum fa dell’arte una terapia
testo e fotografie di alessio pizzicannella
Redazione
14.09.2022 05:00

Cambiare l’identità da malato mentale ad artista» è la dichiarazione d’intenti del Living Museum, un network di atelier nati da un’intuizione di Janos Marton, artista-psicologo ungherese, e di Bolek Greczynski, artista polacco, che nel 1984 fondarono la prima sede a New York City, nel Queens. La seconda tappa di un’espansione che ha successivamente portato l’International Living Museum Association a tutte le latitudini, è stata invece a Wil. Proprio questa sede elvetica, ospitando e formando decine di volontari all’apertura di nuovi Living Museums, ha favorito la propagazione nel mondo di altre sedici «filiali», otto delle quali in Svizzera. Ma tutto è partito, e parte ancora oggi, da Wil. Qui Rose Ehemann, la direttrice della struttura, portò il Living Museum nel 2002, collocando i suoi laboratori nel cuore dell’ospedale psichiatrico St. Gallen Nord, con l’ambizione di cambiare attraverso l’espressione della propria creatività la percezione che il paziente ha di sé.

Il Living Museum è una grande e seria avventura psicologica e civile. In un’oasi di pace e di laboratori dedicati alla pittura, alla scultura, alla modellazione dell’argilla e del vetro, qui a Wil, e nelle altre sedi, i pazienti diventano artisti attraverso una comunicazione non verbale che solo l’arte può facilitare, implementando così la terapia classica seguita nelle altre sedi di una struttura che sembra un tranquillo villaggio all’interno d’un altrettanto serena cittadina della Confederazione. «Al contrario dell’analisi tradizionale, la terapia non si svolge in presenza di un analista ma in solitudine. Qui nessuno ti osserva mentre ti esprimi» ci spiega PUL, una delle pazienti. Ma privacy non significa isolamento. Negli atelier di Wil c’è un via vai incredibile di persone, è un ambiente pieno di stimoli, una quantità di opere coprono tutte le pareti all’interno e persino all’esterno dello stabile, colorandolo e ispirando idee anche solo mentre ci si passa accanto per raggiungere la caffetteria dedicata ai momenti di socializzazione. La meditazione, necessaria per esprimersi in una qualsiasi delle forme d’arte praticabili negli atelier del centro spinge alla tranquillità mentale, essenziale per concedere spazio all’immaginazione e lasciarsi pervadere da una pace creativa, o da scompigli emotivi e catartici.

È un’esperienza diversa per ognuno, ma il minimo comun denominatore è rendere tutti manifesti. «Ora abbiamo la sensazione di essere finalmente notati. Qualcuno si accorge di noi» ci hanno detto non pochi artisti in residenza, durante la nostra visita. «Tenere in mano un pennello calma le mie mani e per la prima volta nella mia vita mi sento orgoglioso di qualcosa» aggiunge Christoph Brack, uno di loro. Se creare aiuta a trovare il proprio centro, l’opera finita offre un riconoscimento sociale. Invisibili all’occhio giudicante di una società che troppo frettolosamente sceglie di non vederli, attraverso le loro creazioni questi artisti si riprendono l’attenzione che è stata loro negata e raccolgono ammirazione e consenso necessario a chiunque di noi per poter affermare la propria esistenza all’interno di una comunità. Per qualcuno di loro questa visibilità si sviluppa ulteriormente in esposizioni o mostre in spazi espositivi indipendenti dal Living Museum.

È il caso di PUL - l’artista il cui soprannome è diventato nome d’arte - che ha visto le sue opere essere esposte allo Stakeholder-Konferenz Sucht. Ed è anche il caso di Corina Schleuniger, che esporrà questo settembre le sue tele in una delle più importanti gallerie d’arte di Wil, la Kunst im Foyer nella frazione di Bronschhofen, e che in passato è stata invitata a diversi podcast ed eventi e ha partecipato alla mostra «Tagträume» al Museum im Lagerhaus St. Gallen, vendendo, peraltro, molti dei suoi dipinti. Questi sono solo alcuni esempi del successo del Living Museum, che accoglie ogni anno circa 1.300 pazienti, un numero davvero notevole: le diagnosi maggiormente riscontrate riguardano disturbi affettivi (32%), dipendenze (29%), schizofrenia (22%). Curare, anche attraverso l’arte, non basta. Serve integrare e diventa quindi necessario sfatare qualche mito e disinnescare quell’aura di romanticismo creato con troppa superficialità da una certa narrativa che ha promosso la caricatura dell’artista borderline, riducendo la malattia mentale a un prezzo da pagare in nome dell’arte. Romanticizzazione pericolosa. Utile ai cosiddetti sani per allontanare la malattia, e in qualche caso ai pazienti per giustificarla. La correlazione tra arte e disagio mentale ha probabilmente più a che fare con un tratto caratteriale comune che le precede entrambe. Una curiosità innata e incontrollabile che non permette di accontentarsi delle convenzioni offerte dalla società, una vera e propria urgenza, un’ossessione a esplorare, scavare sempre più, fuori e dentro di sé, tirando via strati e strati di autodifese e meccanismi che ostruiscono la percezione diretta del mondo. Un atteggiamento verso la vita al quale è impossibile opporsi, per lo più trascurato dalla comunità.

La maggior parte delle persone non si cura della creatività, ha lavori, impegni e famiglie che occupano le giornate. Non ha tempo da dedicare all’arte, forse fino a quando qualcosa non cambia drammaticamente nella loro routine. Nel momento in cui si trovano essi stessi in difficoltà, per via della perdita di una persona cara o semplicemente perché si sono innamorati, ecco che cercano una canzone, un film, una poesia o un dipinto. Un’espressione artistica che suggerisca loro una via d’uscita o che enfatizzi e confermi le emozioni che provano in quel momento. Improvvisamente l’arte è vitale, salvifica, smette di essere un lusso e diventa una necessità. Agisce da compasso emotivo che ci aiuta a capire come ci sentiamo, confermando sentimenti universali e collocandoci emotivamente su una mappa della condizione umana. Ci offre la possibilità di simulare in totale sicurezza scene e momenti della nostra vita. Perché se non è vero che siamo tutti creativi, è verissimo che tutti immaginiamo. L’essere umano, unico animale conscio della propria mortalità, da sempre cerca rifugio nell’immaginazione per comprendere la propria esistenza. Quelli più predisposti a mettere in discussione tutto e se stessi per primi, si ritroveranno inevitabilmente a vivere al limite della salute mentale e ai confini del conosciuto. Chi altri è un artista se non chi si avventura al di là della frontiera, si spinge avanti, salta nel buio, per poi tornare a offrire i frutti della sua ricerca alla comunità, incurante di un eventuale tornaconto? Una vulnerabilità che alla paura della morte, aggiunge drammaticamente anche quella di vivere. Gli artisti sono le antenne di una comunità. «Se la prima rivoluzione - ci spiega Rose Ehemann - è avvenuta alla fine del Diciottesimo secolo con la liberazione dei malati dalle catene, la seconda con l’introduzione degli psicofarmaci, la terza con l’analisi freudiana e junghiana, ecco che la quarta è stata il Living Museum stesso. La quinta non può che essere l’integrazione dei pazienti nella società». Non solo perché un paziente ben seguito e curato ha un costo inferiore sul sistema sanitario, ma perché una comunità è tale perché in essa ci si prende cura l’uno dell’altro. La presenza di Living Museum può quindi diventare un incubatore di creatività, può generare arte da dentro e attrarne altrettanta da fuori. E provocare benessere. Un atelier come il Living Museum rappresenta una possibilità di arricchimento, per la comunità, nella stessa misura in cui lo sono un cinema, un teatro o una biblioteca. Da questo punto di vista ci potrebbe essere una grande novità in arrivo per un altro cantone svizzero, il Ticino, dove si sta realizzando, a Biasca, nel vecchio arsenale militare, un ambizioso compound dedicato all’arte contemporanea, con depositi di opere per il pubblico e per i collezionisti privati, laboratori e gallerie (Hub dello scorso marzo ha dedicato un ampio servizio all’argomento). E forse anche - è un’ipotesi concretamente al vaglio proprio in questi giorni - una nuova sede del Living Museum, una delle venticinque in allestimento nel mondo. «Le strutture con designazione artistica vanno riempite con dei creativi e il Living Museum, se riuscirà ad arrivare a Biasca, sarà essenziale sia per la comunità sia per attrarre artisti di ogni tipo» ci spiega Christiane Tureczek, la presidente dell’Associazione Living Museum Ticino. «A differenza di Wil, immaginiamo il nostro Living Museum, ovunque prenderà sede in Ticino, non all’interno di una struttura psichiatrica ma piuttosto come un punto di riferimento per ospedali, organizzazioni e rappresentanti di questo settore, con i quali cerchiamo una collaborazione. Un atelier pronto ad accogliere dall’intero cantone chiunque ne abbia bisogno. Contiamo di inaugurarlo già nel 2023. L’idea di fondo è che l’arte fa stare bene tutti». Se l’obbiettivo del Living Museum è cambiare l’idea che il malato ha di sé, quello di una società del ventunesimo secolo dovrebbe essere fare un nuovo salto evolutivo dove le comunità imparino ad apprezzare il contributo di ogni individuo. Se vogliamo quindi romanticizzare qualcosa, sogniamo una rivoluzione empatica, un nuovo salto evolutivo dove le comunità impareranno a misurare il contributo di ogni individuo in modo più ampio e completo. Consideriamo quante persone si spostano per visitare città d’arte e piccoli paesi sperduti, e quanto l’arte ha contribuito a ottenere parità e giustizia sociale. Brian Eno definisce l’arte come «tutto quello che non è essenziale ma al quale l’essere umano non sa resistere» e fa l’umile esempio del cacciavite: oggetto con un utilizzo ben preciso e che per metà, la parte metallica, la parte essenziale, non lascia spazio ad alcuna interpretazione, eppure, appena la sua funzionalità cessa, la creatività impera, i manici diventano di qualsiasi colore, forma e materiale. Se l’arte inizia dove lo stretto necessario cessa, un vecchio compound militare in disuso potrebbe essere il posto perfetto per una transizione creativa.

testo e fotografie di Alessio Pizzicannella