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Si fa presto a dire caffè

La new wave della deliziosa bevanda è fatta di pregiate monoculture
Asian man sitting with an elephant drinking coffee In the sunrise Getty Images
Tommy Cappellini
Tommy Cappellini
05.04.2022 09:00

Lo hanno candidato a Patrimonio mondiale dell’umanità: è l’espresso italiano, diffusissimo anche in Ticino e nel resto della Svizzera. Nel mondo se ne bevono più di tre miliardi di tazzine al giorno. Anche la «tazzina» è una prerogativa, anzi è un’opera d’arte e non è affatto il diminutivo di tazza, che ha invece un’origine antica e araba: la «tassah», bicchiere in terracotta in cui si serviva di tutto. A dare il nome allo scrigno con bordo finissimo e base un po’ più spessa che contiene massimo 70 cc del liquido dei nostri sogni quotidiani, è stato un pittore Art Nouveau, Luigi Tazzini, che veniva dall’Accademia di Belle Arti di Brera e prese casa come direttore artistico alla fiorentina Richard Ginori e qui disegnò, agli albori del Novecento, il primo vero servizio da caffè in porcellana.

Tazzini andò oltre l’intuizione settecentesca di Josiah Wedgwood, che dopo aver inventato il creamware, l’inglesissima maiolica, mise in produzione anche un corredo in miniatura per servire il tè. E qui già si capisce che caffè e ceramiche sono una coppia da jet set. Eppure quel liquido nero estratto da arbusti africani ha sempre mantenuto una doppia anima: da una parte è bevanda aristocratica, dall’altra è il corroborante di tutti gli spiriti – dai più umili ai più alti: Johann Sebastian Bach gli ha dedicato la laica Kaffeekantate – che si beve anche in bicchieri di cartone. E che ha fatto ricchissime alcune catene commerciali americane. Attorno al caffè almeno da un migliaio di anni l’umanità ha consumato riti mondani, sogni trasgressivi e concretissimi affari. E lo ha elevato a fenomeno di costume, così potente che il Giappone, tempio del tè par excellence con quella cerimonia che sconfina nel filosofico, oggi è terzo al mondo per consumo di «polvere nera». Anzi, il Giappone è la sintesi di tutto quanto fa caffè. La Generazione Zero cammina per le affollatissime strade di Tokyo con i bicchieroni di Starbucks in mano, l’aristocrazia degli affari si energizza con importazioni massicce di Blue Mountain, uno dei più pregiati e costosi caffè del mondo. Si produce in una zona montuosa della Giamaica a nord di Kingston: a rendere specialissimo questo caffè sono le nebbie che lo rendono dolcissimo, tanto che andrebbe bevuto senza zucchero. Arriva in Giappone in barrique di legno che lo contengono quasi fosse un vino pregiato e nelle Kissaten di lusso (i bar «a caffè») ci sono persino i sommelier della bevanda. Per averne un’idea bisognerebbe dare un’occhiata al Kahisakan, primo locale dedicato al caffè aperto nel 1888 nei sobborghi di Tokyo.

Non sorprenderà perciò sapere che anche la Svizzera ha avuto una positiva «contaminazione»: Emi Fukahori a Zurigo, con il suo Mame, ha vinto nel 2018 il titolo di migliore barista al mondo grazie alla sua straordinaria abilità nel mixare il caffè e di farne infusi. Esistono tre mondi del caffè: l’espresso all’italiana, frutto di una tecnologia che consentì di infondere all’istante la polvere a pressione; quello alla francese o americana, che è il caffè ottenuto per percolazione lenta; quello alla turca, quasi un tè. Ma quale caffè usare? Se dessimo retta alla storia, dovremmo prendere i chicchi che vengono dal distretto di Mokha, nello Yemen (la macchinetta inventata novant’anni fa da Alfonso Bialetti, fusione tra l’espresso e il caffé alla napoletana, porta questo nome in omaggio alla culla dei preziosi chicchi) e meglio ancora dalla zona di Kefa, nel sudovest dell’Etiopia. Da questi luoghi è partito il lungo viaggio dei chicchi che sono stati portati nel mondo dagli arabi subito dopo il Mille. Si dice che il caffè in Europa sia arrivato quando i turchi nel 1683 stringevano d’assedio Vienna. Un ufficiale polacco, Jerzy Franciszek Kulczycki, quando gli ottomani si ritirarono, si impadronì dei sacchi di caffé. Non è così, semmai il buon polacco ha il merito di aver provocato l’invenzione del cappuccino, che fu creato dal frate francescano Marco d’Aviano. Sedutosi al caffè che Kulczycki aveva aperto, il buon frate mescolò la bevanda scura con la panna e ne venne fuori un colore come quello del suo saio: da lì la bevanda del frate cappuccino.

A portare il caffè in Europa sono stati i veneziani e almeno una paio di secoli prima. Lo vendevano come medicinale a peso d’oro. La massima diffusione si ebbe con l’arrivo dei sacchi a Livorno (dove si fa il ponce che mescola rum e caffè) e a Trieste (qui i caffè sono istituzioni culturali), mentre sull’Adriatico, a Fano, si vive l’anima popolare del caffè con la Moretta, uno specialissimo miscuglio di caffè e liquori, anisetta compresa. In Sicilia, nel Medioevo, lo avevano già portato gli arabi. E nell’isola, nelle campagne di Alcamo, si coltiva un caffè specialissimo: il Caturra del Costa Rica, una varietà di Arabica. Oggi i caffè più costosi al mondo, che gli intenditori si contendono a colpi di migliaia di dollari, arrivano da Oriente e Sud America. E quasi sempre sono gli scarti della dieta di alcuni animali. La varietà in assoluto più pregiata (una tazzina arriva a 100 dollari) è il Black Ivory, thailandese. Si raccoglie solo nella zona di Chiang Saen ed è il risultato del pasto degli elefanti che mangiano le bacche di caffè e poi espellono i chicchi. Per fare un chilo di chicchi l’animale deve consumare almeno 33 chili di bacche. Un altro caffè va cercato nelle deiezioni degli zibetti delle palme. Si produce in Indonesia, il costo è oltre i mille dollari al chilo. C’è un caffè dedicato al Papa: il suo nome è Yauco. Lo coltivano a Porto Rico i discendenti dei coloni. Rarissimo è il Sant’Elena, intitolato a Napoleone. Il miglior caffe del mondo è considerato El Injerto, prodotto in quantità minima a Huehuetenango, Guatemala. Sa di mandarino il Los Planes, coltivato a El Salvador, quello delle Hawaii, il Kona, nasce sulle pendici dei vulcani e sa di noce. E il Brasile? Ha dei cru straordinari. Fazenda Santa Ines coltiva in biologico piante di Catucai, Catuai giallo e rosso, Bourbon giallo e rosso, e Acaiá. Imperdibile è quello della Fazenda Sao Benedito, mentre un must è il caffè dell’Hacienda La Esmeralda: quasi sicuramente uno dei più rari al mondo, viene prodotto a Boquete, a Panama. Dunque non basta dire «mi faccia un caffè». Siamo abituati a considerare solo le due grandi specie: l’Arabica (più morbido, si coltiva quasi tutto in Sud America e in Oriente) e il Robusta (più corposo, sa di cioccolata, africano), ma le cultivar di caffè sono centinaia, raggruppate in sessanta tipi, di cui Liberica ed Excelsa oggi sono ben commercializzate. Attorno al caffé sono nati esclusivissimi accessori. I servizi di tavola, i liquori, i sigari. Invitare un amico a prendere un caffé, se fosse un Black Ivory con un bicchiere di cognac Henri IV Dudognon Heritage seguito da una fumata di Cohiba Behike, potrebbe costare 100 mila franchi. Ma con un buon espresso italiano fatto in casa con una delle macchine a vapore più famose (una Pavoni, che fu la prima, o una Victoria Arduino, la più scenografica), servito in tazze Hermès o Ginori, e con un buon Toscano come sigaro e un’immancabile Anisetta Rosati, si può raggiungere egualmente la felicità gastronomica.

di Carlo Cambi