Vive a Lugano uno dei più grandi collezionisti d’arte orientale

La vocazione cosmopolita di Lugano ha sempre comportato, quasi a corollario, la presenza di grandi collezioni d’arte. Alcune tra queste hanno contribuito ad arricchire il patrimonio della città: pensiamo, ad esempio, alla Collezione Brignoni che ha dato origine al Museo delle Culture; altre, invece, hanno trovato fuori dal Ticino la loro definitiva destinazione, oppure sono andate infelicemente disperse: una fra tutte, la straordinaria Collezione Thyssen-Bornemisza. Al di là della loro sorte, tutte le collezioni hanno un senso e un valore profondo soltanto se sono legate alla dimensione esistenziale e all’esperienza umana di chi le ha volute, progettate e realizzate intorno a sé. Il collezionista è indispensabile alla collezione: non soltanto perché l’ha realizzata, ma perché ne assicura l’originalità, interpretando lo spirito del tempo. Anche da questo punto di vista, Lugano si caratterizza per un deciso cosmopolitismo: per essere stata il luogo di elezione, il buen ritiro di collezionisti di rilievo internazionale che qui hanno trovato la possibilità di coltivare con serenità le proprie passioni, a due passi dal mondo. Fra i maggiori collezionisti al mondo di arte giapponese, Jeffrey Montgomery vive a Lugano da oltre cinquant’anni. La sua passione per l’Oriente è stata precocissima. Già a quindici anni acquistava oggetti d’arte con i suoi piccoli risparmi. A vent’anni la scoperta della civiltà giapponese ha fatto il paio con l’avvio di una riflessione interiore, che da allora ha sempre coltivato, sulla bellezza della semplicità. Per Jeffrey Montgomery, l’arte giapponese è stato il polo formale di una ricerca più ampia e profonda che ha coinvolto tutta la sua esistenza. Forse per questo le migliaia di opere della sua collezione, che vale un museo, posseggono una sorprendente coesione, pur essendo manifestazioni di generi molto diversi: ceramiche, tessuti, sculture, arredi, raffinatissimi oggetti di uso quotidiano. Ad accomunare le opere di una collezione conosciuta a ogni latitudine è anche un secondo fil rouge, che il collezionista ha scelto di seguire per arricchire la sua raccolta.

Per Jeffrey Montgomery, le più sublimi espressioni della creatività sono date dalla capacità artigianale di rendere perfetto un oggetto al suo scopo: dalla dimensione ergonomica alla purezza di una decorazione che trova la sua ragione - ed esprime il suo più autentico significato - nel contesto ambientale e culturale in cui l’opera vive. Quasi che la maestria artigianale diventi arte nel momento in cui gli ingredienti essenziali di una forma e di una funzione trovano un loro perfetto equilibrio. Ognuna delle opere della sua collezione è di conseguenza frutto di una scelta ponderata nel rispetto di una personale concezione esistenziale, istintiva prima che estetica, dai tratti estremamente vicini alla filosofia dell’arte che la civiltà giapponese ha elaborato nei secoli. In altre parole, Jeffrey Montgomery è partito dalla sua personale sensibilità, dal suo mondo interiore, per incontrare le ragioni profonde dell’arte giapponese e per sperimentare con loro una formidabile condivisione e un’autentica sintonia. I molti viaggi in Giappone, la conoscenza personale e i rapporti tenuti con numerosi maestri delle arti tradizionali dell’Arcipelago hanno poi consolidato una competenza specifica che gli ha permesso di muoversi con sicurezza in un mondo che gli è divenuto via via più familiare. Da un altro punto di vista, le ragioni delle scelte di Jeffrey Montgomery trovano una sostanziale consonanza nel complesso interagente di ideali tradizionali che costituisce, con un termine improprio, l’«estetica» giapponese. Ideali oggi divulgati in concetti alla moda, conosciuti ormai anche al di fuori della cerchia degli specialisti. Ed è qui che, probabilmente, la Collezione Montgomery esprime il suo più alto valore. Attraverso le opere conservate oggi a Lugano è possibile non soltanto documentare, ma anche comprendere il significato di concetti altrimenti difficili da avvicinare, come ad esempio, fra gli altri: shibumi, ovvero il gusto «amaro» delle opere che esprimono, quasi in modo ossimorico, una rarefatta raffinatezza che si coniuga perfettamente a una frugale sobrietà; mono no aware, ovvero la partecipazione emotiva alla bellezza della natura e della vita dell’uomo, e la conseguente sensazione nostalgica legata alla loro incessante trasformazione; wabisabi, ovvero i poli dialettici di una bellezza imperfetta e incompleta che si esprime nelle forme di una sommessa e austera rusticità; yohaku, ovvero il «valore propositivo» del vuoto, che significa ridurre quanto più possibile l’invadenza dell’autorità dell’artista per cercare di restituire la natura intrinseca di un oggetto e, assieme a tale natura, anche lo spazio e il tempo che le sono propri. Tutti concetti accomunati dal valore dalla nozione buddhista (in particolare Zen) di mujō (lett. «impermanenza»), per cui la pace interiore passa attraverso l’accettazione e la celebrazione del fatto che nulla dura, che nulla è finito e che nulla è perfetto.
