Il personaggio

Professione cantastorie

Nostra intervista a Sergio Castellitto, in scena sabato e domenica al Teatro di Chiasso con il monologo «Zorro. Un eremita sul marciapiede»
Giovanni Gavazzeni
10.02.2023 06:00

Sergio Castellitto uno dei rari attori e registi italiani della sua generazione che porta la qualità del teatro e del cinema d’autore alle numerose fiction televisive di cui è protagonista, ultima quella dedicata al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, decisivo vincitore della guerra civile al terrorismo e martire nella lotta alla mafia. Castellitto gode di riconoscimento anche fuori dai confini nazionali, soprattutto in Francia, dove venne messo in luce nel 1988 dallo splendido film di Luc Besson, Le Grand Bleu, collaborando a più riprese con cineasti come Jaques Rivette, Albert Joffé, Valerie Lemercier. Abbiamo incontrato Castellitto alla vigilia dei due spettacoli al Cinema Teatro di Chiasso (sabato 11 febbraio ore 20,30 e domenica 12 febbraio ore 17.00) in cui presenta Zorro – un eremita da strada. Con questo monologo, scritto per lui dalla moglie Margaret Mazzantini nel 2004. Castellitto ha ripreso ad attraversare sia le grandi città che quei centri più piccoli dove il «privilegio di recitare» è più avvertibile rispetto alle metropoli «affogate da distrazioni e offerte eccessive».

Castellitto, lei per nascita è romano, ma di famiglia è originario del Molise: la romanità ha cancellato il sannita delle origini?

«Anche se il “Molise non esiste” (come affermava uno slogan pubblicitario polemico della Regione Molise di alcuni anni fa), non dimentichiamo che il popolo sannita è quello che fece chinare la testa a Roma. Vengo da una famiglia con cinque fratelli a cui sono rimasto molto legato. Sono felice di terminare questa tournée di Zorro a Campobasso, perché col passare degli anni il legame di sangue con le proprie radici diventa più forte».

Presentando questo spettacolo lei ha trovato due immagini riassuntive che infondono speranza in questi tempi in cui si sente quasi solo parlare di guerra, di «dare» armi con il rischio di un ulteriore progressivo abbassamento dell’interesse verso la cultura in senso lato: «la cultura si sporca le mani; è un bisturi che ti guarisce e ti risarcisce».

«L’affluenza, il successo che incontro città dopo città con Zorro – un successo che definisco “emotivo” – mi conferma il valore di quelle affermazioni. Vedo platee di persone alle quali racconto la storia di un uomo, un clochard, un “eremita di strada”. Una storia intima ma universale che tocca il sentirsi “diseredati” da qualcosa. Guardando un “barbone” tutti ci siamo sentiti davanti a un vuoto – oltre al fatto che li guardiamo con una certa estraneità sentendoci di non essere come loro – perché l’anima dell’uomo è errante».

Chi appartiene a una generazione cresciuta con i «mattatori», le maschere tragiche e comiche di Gassmann, Sordi, Manfredi, Tognazzi, i grandi capicomici del teatro dialettale, Eduardo, Peppino, Gilberto Govi, Baseggio, si domanda se in questi ultimi decenni abbia assistito al Tramonto del grande attore, per usare il titolo di un libro di Silvio d’Amico, fondatore dell’Accademia d’arte drammatica di Roma, dove lei ha studiato?

«Un tempo la figura dell’attore era quella centrale, ma il “teatro di regia” ha fatto cambiare le cose. Però il teatro viene da 4.000 anni di storia: è sempre legato al bisogno di uscire dalla propria casa, di andare in un altro luogo insieme a sconosciuti per ascoltare il racconto di un uomo che parla ad altri uomini. Nonostante la COVID-19 lo abbia infragilito trasferendo questa agorà dalle sale al divano privato, il teatro resiste in maniera incredibile: certo il blocco antipandemico ci ha fatto toccare, anche violentemente, il sentimento della solitudine e ha riguardato ognuno di noi, però ha anche provocato un rovesciamento, un segno nuovo che sento ogni sera a teatro quando inizio il racconto tragicomico di Zorro, avvertendo che il pubblico ha bisogno di ridere, di piangere, di emozionarsi, soprattutto di soffermarsi: non siamo più capaci di sospendere le cose e ascoltare. Ogni sera il pubblico cambia e così lo spettacolo, che è una combinazione fra quello che troviamo e il nostro umore, ed è lì che si trova l’energia per avere sempre voglia di raccontare, guai al contrario!»

Prima del tramonto dei mattatori, quali sono state le personalità che più l’hanno ispirata?

«Un attore è fatto di tante cose, come degli incontri con gli artisti che ha conosciuto. Ci sono due definizioni che mi piacciono: la prima forse risale a Shakespeare che definisce l’attore “misera marionetta di fango”; l’altra è “atleta dell’anima”. Mi sento una “cerniera” fra l’attore “promettente” che ha avuto la fortuna di lavorare con Gassmann, Mastroianni, Manfredi, con Ettore Scola che mi ha dato il dono dell’amicizia, con quelli che chiamo i miei “zii”, Gianni Amelio e Marco Bellocchio e con i registi della mia generazione, Tornatore e Francesca Archibugi».

Registi con i quali ha collaborato per le loro pellicole forse più riuscite, rispettivamente L’uomo delle stelle e Il grande cocomero...

«La mia esperienza così si è formata capendo che la performance attoriale di per sé non è più decisiva, ma che l’attore deve diventare narratore. Io sono a teatro per raccontare una storia, con il mio talento, con il mio corpo. Quel racconto mi permette di avere la voglia di fare ogni sera lo spettacolo».

Lei lavora molto in Francia, dove il teatro ha uno spazio sempre molto importante. Quali sono le differenze con la realtà italiana?

«Metterei insieme alla Francia anche l’Inghilterra e la Germania, dove l’elemento della preparazione attoriale è decisivo; in Italia c’è la tendenza a consentire spazio per tutti, cosa nobile e importante, ma penso che gli artisti debbano essere al contempo umilissimi nello studio e ambiziosi. Ricordo il regista ceco Otomar Krejca con il quale ho lavorato per Cechov e Schnitzler, dirci: “Fatevi venire una seconda idea; la prima è già venuta a un altro”».

Il titolo dello spettacolo in scena a Chiasso, Zorro, ha una qualche relazione con il popolare eroe della California spagnola?

«No. Zorro è un barbone, una sbrancato (uscito dal branco, termine che Manzoni affibbia ai lanzichenecchi calati nel milanese e Verga alle caprette), un derelitto al quale mia moglie Margaret voleva affibbiare un nome che fosse quello di un principe dei poveri affettuosamente legato alla storia di un cane che lui ha perso. Zorro è un uomo che gliele canta alla società, che fa esplodere in mille pezzi il mondo di quelli che chiama i “cormorani”, i normali (ancora devo capire cosa siano i “normali”). Zorro fa una vita da cane. Vive i tempi morti; la strada è una scelta dura, violenta, e poetica. A Zorro il destino ha dato un calcio, ma lui non vuole tornare indietro. Margaret sostiene che gli attori siano dei clochard che ce l’hanno fatta, infatti siamo girovaghi, erranti che passano di città in città. Perfino negli artisti troppo pieni di sé, anche nella presunzione, c’è qualcosa di fragile, di penoso. E poi il percorso artistico è una strada».

Lei vive con un’autrice contemporanea, cosa legge oltre al lavoro?

«Tendo a rileggere i classici, con tutto il rispetto dovuto agli autori contemporanei, perché trovo nei classici, per esempio nel Giocatore di Dostoevskij o in Simenon, qualcosa di eternamente straordinario: cadendo anche solo su una singola pagina catturi sempre qualcosa che ti era sfuggito».

Italia, Paese di eroi, santi e navigatori. Fra gli eroi da lei interpretati ci sono il generale Dalla Chiesa, il giudice Rocco Chinnici, Fausto Coppi, Enzo Ferrari; fra i santi, don Lorenzo Milani e Padre Pio. I navigatori quando?

«In generale c’è una certa tendenza a evitare racconti troppo storici: la fiction va consumata apparentemente nella contemporaneità. Per questo il successo di Dalla Chiesa vale doppio, perché ha raccontato cosa sono stati storicamente quei dieci anni di guerra civile, prima dell’epilogo a Palermo».

Lasciamo la conversazione con Sergio Castellitto con le sete di ricominciare a fargli altre domande: è raro trovare un attore che non solo risponde col pudore consapevole dell’umiltà, ma che offre concetti ammantati di fascino, come un cantastorie d’altri tempi. Ricordiamo ai lettori che oltre che di Zorro, in scena sabato e domenica a Chiasso l’attore è protagonista (su Netflix) del recente film di Pupi Avanti, Dante nel quale, autodefinendosi «primo ufficiale nel racconto», narra la vita del Sommo Poeta attraverso gli occhi di Giovanni Boccaccio. Nel viaggio che Boccaccio compie da Firenze a Ravenna per portare alla figlia monaca di Dante una somma di denaro inviata dai Capitani di Orsanmichele come risarcimento postumo alle persecuzioni, alle confische, alle condanne, al duro esilio, Avati e Castellitto ci offrono un modo asciutto ed esemplare di raccontare la storia al cinema, senza manierismi, senza accademie, senza compiacimenti.

Un impresa famigliare

Il sodalizio coniugale e artistico fra Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini, marito-attore-regista e moglie-autrice-attrice, ha prodotto una serie di film di grande impatto emotivo, come il pluripremiato Non ti muovere (2004), dove Penelope Cruz è stata non a torto paragonata ad una nuova Anna Magnani, come i non meno avvincenti Venuto al mondo (2012) e Nessuno si salva da solo (2015) fino al recente Materiale emotivo.

Il monologo Zorro, in scena nel weekend a Chiasso e diventato anche un romanzo breve, nasce dal desiderio di Margaret Mazzantini di cercare «una buona idea per Sergio Castellitto, per il suo talento d’attore, ma non solo, qualcosa per la sua parte muta. Dopo tanti film gli era venuta nostalgia del teatro, della vecchia placenta dove era diventato attore […]. Pensavo a un monologo intimo eppure circense, che gli desse la possibilità di sgangherarsi […] così scrivo di uno che sta in strada, senza sociologia, solo un’anima che vaga, che strepita. Uno dei quegli sbrancati attraversatori di città. Uno buffo, con le sue miserie, le sue lacrime, ma anche una sua strafottenza, un suo umorismo. Uno che non si scansa, che ha accettato il destino come la cacata di un uccello sulla testa, imprecando e ringraziando insieme. Scrivere di un senzatetto è affidarsi alla scabrosità di una possibilità che ti appartiene. Perché gli artisti, spesso e volentieri, sono barboni fortunati. Ce l’hanno fatta a non finire all’addiaccio, ma conservano i tratti disturbati e l’inquietudine dell’erranza, vagano con gli occhi, sentenziano sul mondo, hanno ossessioni, riti. Ogni giorno corrono il rischio di perdersi, di non trovare più la strada del ritorno».