A Ronchamp con Le Corbusier

Al vertice di una collina, contornata dall’azzurro del cielo e custodita dal verde degli alberi e di un prato, sorge la bianca cappella di Notre-Dame du Haut a Ronchamp. Come un fungo magico e monumentale le sue linee ritmano la luce e le sue forme modulano lo spazio. Mai si era visto un edificio dalle strutture tanto irregolari; mai si era contemplata una chiesa dalla fisionomia così bizzarra. Una forma insieme grandiosa e piccola, «impressionante e rassicurante, sconcertante e familiare». Una presenza luminosa con qualcosa di felicemente deforme: secondo il significato di una ricca e improbabile etimologia: dèi formitas: la forma degli dèi. Quale imponenza e quale grazia. Oltre apparenti simmetrie, al di là di facili proporzioni; oltre la misura di un semplice calcolo, dietro la superficie di un rigore pitagorico, il mistero della bellezza, come lo Spirito, soffia dove e come vuole. Un’enorme copertura di cemento grigio a forma di vela, come un’ala rovesciata, è sorretta da due pareti maestosamente concave, da dove filtra una felice linea di luce; alla sinistra un aereo campanile prelude ad un terzo lato circolare: due simmetrici blocchi torreggianti delimitano il portone d’entrata. Nei suoi scultorei dettagli è impossibile descrivere il prodigio di questa forma; nelle sue linee morbide e oblique è difficile testimoniare del suo supremo ordine. Come una musica, il suo barbarico fascino elude qualsiasi analisi. Questa chiesa, che è la più bella costruita nel XX secolo, è più simile ad una scultura che a un’architettura. È il prodigioso risultato di un programma realizzatosi da un’idea che è nata, ha navigato, è divagata, ha cercato, e infine ha trovato il proprio equilibrio. Poiché, secondo le preziose parole di Le Corbusier (La Chaux-de Fonds, 1887 - Roccabruna, Capo Martino, 1965), «l’architetto deve essere assolutamente scultore», e l’architettura «è di per sé un evento plastico totale. È di per sé un supporto di lirismo totale», «nel quale il gioco plastico è sinfonico (volumi, colori, materia, luce)». «Perché l’architettura è la sintesi delle arti maggiori. L’architettura è forma, volumi, colore, acustica, musica».
L’amore per l’arte dei suoni
Con quest’opera il grande architetto svizzero ha dimostrato il suo grande amore per l’arte dei suoni. Da una parte, la cappella è espressamente concepita in un percorso di eventi visivi «come una sinfonia è un susseguirsi di eventi sonori: il tempo, la durata, la successione, la continuità», un sottile gioco sinfonico che vuole realizzare un fenomeno di estrema concordanza, «esatto come una matematica - vera manifestazione di acustica plastica». Un’opera di plasticità, «di plasticità acustica» «una specie di scultura di natura acustica». Dall’altra, con la collaborazione di Edgar Varèse e Olivier Messiaen, Le Corbusier avrebbe voluto farne un luogo liturgico di nuove fonti sonore.
Come una scultura, apparentemente questa Cappella sembra non avere nessuno scopo: le sue curve sono molto astratte, le sue pareti sono particolarmente strane, i suoi angoli sono bizzarramente acuti, le sue linee riccamente ricurve e tese «come le corde di un arco». Come un’astronave piovuta dal cielo, il suo biancore va oltre ogni significato, le sue forme sghembe allontanano qualsiasi limitato ragionamento. Il suo aspetto è simile ad un’antenna fastosamente composita che dialoga con mondi interstellari; la sua fisionomia può ricordare le utopie di un telescopio che osserva e indaga le luci dell’universo. Per testimoniare l’«irrazionalità» del Divino, questa cappella ha assunto una forma gioiosamente irregolare. Alla sua vista non abbiamo più dubbi: l’etica nasce dall’estetica: il bello ci rende buoni. Si entra al suo interno con un’intima voglia di pregare; un cromatico bagliore penetra dalle numerose e svariate finestre; è anche l’interna dinamica dei colori: la ricchezza della policromia: la potenza del rosso sangue, la freschezza del verde prateria, lo splendore del sole, la profondità del cielo o del mare: il tutto che concorre alla perfetta armonia dell’insieme. Poi, come dagli oculi del Serapeo di Villa Adriana a Tivoli - fori di mistero, periscopi che scavano il cielo - da due verticali cappelle laterali cala e ci pervade il candido silenzio della luce.
Il superfluo è stupido e banale
A partire da Notre-Dame du Haut a Ronchamp, e altri pochi capolavori, l’architettura ha vissuto e sta vivendo una stagione rinascimentale. Da quando, nei primi anni del ’900, Adolf Loos denunciò che l’ornamento è delitto, che il superfluo è stupido e banale; da quando Josef Hoffmann iniziò a progettare i suoi avveniristici mobili, i muri cominciarono ad alleggerirsi, le pareti a svuotarsi, gli interni ad allargarsi, affinché il più grande degli scultori, la luce, potesse modellare tutti gli spazi. Iniziò l’epoca del razionalismo, e nello studio di Peter Behrens, agli inizi del secolo scorso, Walter Gropius e Le Corbusier cominciarono a disegnare.
Se in altri edifici si era concentrato sulla molteplicità, sulla pluralità, sull’idea eccessivamente ottimistica di un vasto convivere sociale, nella Cappella di Notre-Dame du Haut completata a Ronchamp nel 1955, le sue teorie vennero apparentemente rinnegate, per una forma eccentrica e spirituale. Dopo aver progettato tutta la vita case, quartieri, immensi piani urbanistici per l’uomo e per il suo concreto vivere insieme, è curioso che proprio in una chiesa abbia trovato la sua più alta e lirica ispirazione.
Il furore della fantasia s’impose sui rigori della Ragione. L’impeto dell’immaginazione trasfigurò i calcoli della matematica. L’uomo che dimostrò di essere il più equilibrato, il più razionale, il più logico, esaltò la propria ispirazione in un monumento fastosamente irrazionale. L’uomo che credeva nel possibile ordinamento della nostra società come il migliore dei mondi possibili, realizzò un’opera che allude e rimanda ad un altro mondo, in una chiesa in cui la fusione di architettura, scultura, pittura e musica si è realizzata in una pura forma sincrona e sinfonica.