Musica

A tu per tu con Andrea, il cervello dei Negramaro

La band italiana sarà a Lugano il prossimo 4 dicembre, mentre all'indomani si esibirà a Zurigo
Grant Benson
20.11.2022 07:00

Dalla loro nascita, nel 2000, hanno fatto una lunga strada. E oggi sono uno dei gruppi più amati della scena musicale italiana, e non solo, con oltre due milioni di dischi venduti. I Negramaro hanno recentemente lanciato il nuovo singolo «Ora ti canto il mare». Ed è partito il loro Unplugged tour che li porterà in molte città italiane ed europee. Nella loro parentesi svizzera saranno il 4 dicembre a Lugano (Palazzo dei Congressi) e il giorno dopo a Zurigo (Komplex 457). Con Giuliano Sangiorgi (voce, chitarra, pianoforte), Emanuele Spedicato (chitarra), Ermanno Carlà (basso), Danilo Tasco (batteria), Andrea De Rocco (campionatore), c’è Andrea Mariano (pianoforte, tastiera, sintetizzatore), che è anche il produttore. Appassionato di elettronica ha realizzato brani per lungometraggi e film. Ecco cosa ha raccontato in una intervista che verrà proposta integralmente una settimana prima del concerto su Radio 3i.

Andrea, possiamo definirti il «cervello» dei Negramaro visto che sei il produttore, o pensi che questa definizione sia eccessiva?

«No, il termine mi piace, è un gran complimento. Anche se in realtà nel gruppo siamo sei “cervelli” che lavorano e creano insieme e si sono appena ritrovati dopo un periodo di sosta forzata per questo tour».

Un tour che si divide in due parti, una con tappe italiane e un’altra con tappe europee. C’è un modo diverso di avvicinarsi, direi approcciarsi, alle diverse realtà, quelle italiane e quelle invece fuori dall’Italia?

«Bella domanda. Iniziamo con il dire che in Italia finora siamo andati benissimo, è stato un successo quasi inaspettato, con un calore impressionante del pubblico e quindi ci possiamo permettere il lusso, passami il termine, di strafare un pochino quando siamo sul palco. In Europa i concerti sono più - come dire? - diretti. E dunque al massimo faremo qualche ritocco alla scaletta per renderla un po’ più fluida, impattante, perché ci piacerebbe in qualche modo cercare di catturare l’attenzione anche di quel pubblico che magari non ci conosce tanto. E ci piacerebbe cominciasse ad amare la nostra musica. Insomma, ci piacerebbe stuzzicare la curiosità».

In pratica avrete due tipi di pubblico davanti a voi. Quanto conta in una performance il luogo? Preferite suonare in uno stadio o in un teatro?

«Il luogo è importante. A me capita spesso di sentirmi chiedere se amo di più suonare in uno stadio, in un club o appunto in un teatro. In realtà non c’è una risposta, perché sono tre situazioni che ti danno tutte emozioni forti, molto diverse tra loro, che tuttavia hanno il potere di caricarti di adrenalina e consentirti uno scambio con il pubblico. E tuttavia a me piace tantissimo suonare in teatro, perché quando andiamo giù con il sound riusciamo spesso a ricavare momenti di completo silenzio e attenzione: la gente ti ascolta, partecipa davvero. Probabilmente, poi, contano le dimensioni degli spazi. Ad esempio in uno stadio si va a prendere la birra, è più dispersivo. Nel teatro e nei club c’è una dimensione più intima. Ma noi cerchiamo ovunque di tenere sempre viva l’attenzione durante il nostro concerto».

Il tour? Diciamo che è un po’ un ibrido, nel senso che siamo partiti dalla concezione del tour del 2007 ma stavolta è più contaminato, ha parti acustiche ma anche tanta elettronica

La novità di questo tour?

«Diciamo che è un po’ un ibrido, nel senso che siamo partiti dalla concezione del tour del 2007 ma stavolta è più contaminato, ha parti acustiche ma anche tanta elettronica, è un concerto molto dinamico e divertente, un’ora e mezzo, due ore di spettacolo».

Da produttore è difficile sapere quando dire basta, quando chiudere un brano? È mai successo, quando senti una canzone a distanza di mesi pensare: perché non ho fatto così, perché non l’ho cambiata in questo modo?

«La risposta è sì. E questo per il 90 per cento dei brani. La nostra è un po’ una dolce condanna perché abbiamo la responsabilità di dire ok, stop, e fissare in quel momento il suono, ancorarlo in un determinato spartito, bloccare una sonorità. Quando poi chiudi devi sapere che un errore o una sbavatura te li porti appresso e restano legati a un periodo preciso della vita di tutti noi, musicisti e ascoltatori. Segnano una atmosfera, un incontro, un amore. Perché cambiare?».

Non c’è mai la tentazione di rimasterizzare un brano, di attualizzarlo?

«Sì, per dargli magari un suono più potente si potrebbe rivedere qualcosa, ad esempio nei gruppi anni ‘70. Ma sarebbe un peccato: non si riconoscerebbe più quel sapore che la band ha espresso in quegli anni, perderebbe di originalità. Alla gente non piacerebbe e anche secondo me sarebbe qualcosa di sbagliato».

Corrado Rustici è stato fondamentale per coraggio e intuizione. Prima di Sanremo lavorare con lui ci sembrava una scelta un po’ strana, difficile da capire

Quanto è stato importante per voi collaborare con un produttore discografico e arrangiatore esperto come il napoletano Corrado Rustici?

«È stato fondamentale per coraggio e intuizione. Prima di Sanremo lavorare con lui ci sembrava una scelta un po’ strana, difficile da capire. Alla fine, a posteriori ci siamo resi conto quanto invece sia importante una figura esterna che ti aiuta a capire se quello che stai facendo è azzeccato. Lui per noi è stato come un regista, e in un film puoi avere i migliori attori del momento ma se non c’è un buon regista il film non viene bene».

Ci sono alcuni produttori che ammiri in particolare, che ti hanno colpito?

«Tanti. Mi piace molto l’americano Rick Rubin (ha vinto 10 Grammy Award, e prodotto artisti di fama mondiale, oltre ad aver collaborato con Jovanotti) per la filosofia, l’approccio che ha nei confronti della musica. Poi non posso non citare il grande Quincy Jones. Annoto che la vera qualità del produttore è avere la forza di spaziare da un progetto all’altro rendendoli tutti unici».

Ultimamente si parla di gruppi e artisti emergenti. In Italia c’è stato il fenomeno dei Måneskin, cosa ne pensi?

«Sarebbe stupido non parlare in positivo di quanto hanno fatto. Anche se definirli un fenomeno mi pare un po’ riduttivo. Il loro è un progetto che fa bene all’industria musicale italiana, insieme a quello di tante altre giovani band. Spero solo che questi artisti abbiamo visioni a lungo termine, che sappiano gestire e attutire l’impatto della notorietà per lasciare un’impronta e continuare a crescere».

Non smettere mai di sognare. È un concetto semplice ma funziona. Bisogna avere la capacità di non mollare mai

Che consigli ti senti di dargli?

«Non smettere mai di sognare. È un concetto semplice ma funziona. Bisogna avere la capacità di non mollare mai».

Tra pochi giorni sarete in Svizzera, a Lugano e Zurigo, cosa possono aspettarsi i fan svizzeri?

«Questo è un tour speciale, importante per la nostra storia. Si divertiranno».

Quanto bisognerà attendere per ascoltare nuovi brani dei Negramaro?

«Poco, veramente poco».