L'intervista

«Anche in Cisgiordania si stanno creando dei "cantoni"»

Lo storico Arturo Marzano racconta i processi in corso a Gaza e nei Territori Occupati e guarda con scetticismo alla pace in Medio Oriente
©Nasser Nasser
Francesco Mannoni
26.10.2025 12:03

Un saggio importante e documentatissimo che parte da lontano, ripercorre il cammino della «Storia di Gaza. Terra. Politica. Conflitti» (Il Mulino, 300 pp. 24 €), e racconta di un nucleo territoriale e delle sue vicende che oggi sono al centro di tante polemiche, drammi, sofferenze e morte. L’ha scritto il prof. Arturo Marzano, esperto di storia del sionismo, dello Stato di Israele, del conflitto israeliano palestinese e del rapporto tra Europa e Medio Oriente, docente di storia e istituzioni dell’Asia nell’università di Pisa. Abbiamo intervistato il prof. Marzano, autore anche di altri numerosi saggi d’approfondimento della storia tra ebrei e palestinesi.

Indicata come la città di Hamas e del terrorismo, qual è invece la vera anima di Gaza e della sua gente sia nel passato che nel presente?
«Gaza è stata per secoli un importante centro economico, culturale e spirituale. La sua prosperità derivava dalla posizione strategica lungo le rotte carovaniere che collegavano la penisola arabica all’Anatolia e il Nord Africa all’Asia centrale, oltre che dalla fertilità del suo territorio. Dal 1948, con la trasformazione in «Striscia di Gaza» - un’area di circa 365 km² isolata dal contesto circostante - la regione è entrata in una fase di progressiva crisi. Tuttavia, Gaza non può essere ridotta né solo a questo, né alla sola presenza di Hamas: è stata, ad esempio, anche culla di figure di rilievo come Haidar Abdel Shafi (1919-2007), medico e difensore dei diritti umani, ed Eyad al-Sarraj (1944-2013), psichiatra impegnato nel sostegno alla popolazione gazawi, indipendentemente dalle appartenenze politiche».

Ma da Gaza, patria delle Intifada, sono partiti molti attacchi ad Israele: è per questo che è sempre stata considerata ricovero di terroristi?
«Dai primi anni Cinquanta, dalla Striscia di Gaza sono stati condotti diversi attacchi contro obiettivi militari e civili in Israele. La risposta israeliana è stata molto dura. Tuttavia, la repressione - che ha incluso anche massacri di popolazione civile palestinese - non ha fatto altro che alimentare una crescente radicalizzazione all’interno della Striscia. Al contempo, va considerato un altro aspetto: quello demografico. La Striscia, già sovrappopolata dal 1948-49 a causa della presenza dei rifugiati - che ancora oggi costituiscono la maggioranza della popolazione - è stata percepita da Israele come una sorta di «spina nel fianco», proprio per la pressione demografica esercitata ai confini dello Stato. Questa situazione era per Israele intollerabile, come dimostrano i vari tentativi - si pensi al 1956 o al 1967 - di ridurre la popolazione».

Perché le varie organizzazioni politiche che a Gaza si sono avvicendate nel tempo, sono state anch’esse considerate terroristiche?
«Direi che ci sono due ragioni principali. La prima è che queste organizzazioni si sono effettivamente rese responsabili anche di atti di terrorismo, colpendo civili israeliani. Accanto alla legittima resistenza contro l’occupazione militare israeliana iniziata nel 1967, hanno infatti compiuto azioni che rientrano nella definizione di terrorismo. Tuttavia, la motivazione più rilevante è di natura politica: definendole organizzazioni terroristiche, Israele - seguito in questo dai suoi principali alleati, in primis gli Stati Uniti - ha potuto delegittimarle sul piano politico, mettendo in discussione la validità delle loro legittime rivendicazioni politiche».

Oggi in Cisgiordania è un processo sistematico di frammentazione territoriale: città e villaggi palestinesi vengono progressivamente chiusi in piccole enclave,

Una «gazificazione» in piena regola quella fatta dall’esercito israeliano che ha come conseguenza il «confinamento dei palestinesi in enclave urbane interamente circondate da territori controllati da Israele», come afferma il politologo Tereq Baconi?
«Questa espressione, utilizzata da Baconi, mi sembra estremamente pertinente. Ciò che osserviamo oggi in Cisgiordania è un processo sistematico di frammentazione territoriale: città e villaggi palestinesi vengono progressivamente chiusi in piccole enclave, separate l’una dall’altra, con conseguente impossibilità di movimento per la popolazione civile. Questa dinamica riproduce, in forma speculare, quanto avvenuto a Gaza a partire dalla metà degli anni Novanta, in seguito alla firma degli Accordi di Oslo, inaugurando una logica di «cantonizzazione» che ha trasformato la geografia politica palestinese in un mosaico di spazi isolati e controllati».

La comunicazione di Hamas dopo il 7 ottobre del 2023 che giustificava l’attacco a Israele, è accettabile secondo lei, così come il suo prendere le distanze da certe violenze, abusi e stupri commessi dai palestinesi?
«Con un lungo testo, pubblicato nel gennaio del 2024 sia in arabo sia in inglese, Hamas spiegava le ragioni dietro al 7 ottobre, presentandolo all’interno della storia del conflitto israelo-palestinese, a partire da fine Ottocento, passando per il Mandato britannico, il 1948 e il 1967, sottolineando l’«oppressione» del popolo palestinese e affermando che il 7 ottobre rientrasse in un «diritto di difesa» sancito dal diritto internazionale. La responsabilità delle violenze contro i civili israeliani veniva attribuita a quei palestinesi non affiliati ad Hamas che erano usciti da Gaza, tentando di scagionare pertanto i miliziani dell’organizzazione islamista. Per quanto è possibile che Hamas non sia stata in grado di controllare le centinaia di civili palestinesi che hanno partecipato al 7 ottobre, risulta però assolutamente non credibile questa affermazione, vista la partecipazione di molti miliziani alle violenze, in molti casi dimostrata da filmati girati da loro stessi».

Questa guerra, è diretta conseguenza di quella tendenza del sionismo definita «neo-sionismo» o «sionismo neo-revisionista» che ha preso il potere a partire dal 2009?
«Dal 2009 Netanyahu ha portato avanti una politica basata esclusivamente sull’uso della forza, senza accompagnarla a una strategia politica. Per questa ragione, il suo sionismo è stato definito «neo-revisionista», per aver dimenticato che, dopo l’imposizione di un «muro di ferro» - per citare il fondatore Vladimir Ze’ev Jabotinsky - era necessario intavolare negoziati con i palestinesi. Netanyahu ha ritenuto che la chiusura di Gaza, imposta dal 2007, e una serie di round militari dal 2009 in poi potessero bastare per «gestire» la popolazione della Striscia e Hamas. Parallelamente, in Cisgiordania, il governo israeliano ha proseguito con una colonizzazione sempre più capillare e con una violenza crescente nei confronti della popolazione palestinese, soprattutto nel corso del 2023».

Per il territorio di Gaza, quale avvenire si potrebbe prospettare dopo tante tragedie?»
«È difficile dare una risposta dato che si tratta di eventi in corso. Ritengo, tuttavia, di poter affermare che i toni trionfalistici con cui il cessate il fuoco è stato commentato in diversi contesti siano del tutto fuori luogo. Innanzitutto, resta da verificare se il cessate il fuoco reggerà, anche se mi aspetto che ciò avvenga. Il passaggio a una pace stabile, però, è un processo estremamente delicato e soprattutto di lungo periodo: per giungere a una pace che ponga fine al conflitto israelo-palestinese, è necessario che il governo israeliano riconosca il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, attraverso una forma di statualità. E non mi pare che Netanyahu abbia intenzione di farlo».

Che cosa impedisce l’esistenza di uno Stato palestinese?
«L’esistenza di uno Stato Palestinese alla cui nascita Netanyahu è contrario - come, peraltro, più volte ha dichiarato -, è resa impossibile dal proseguimento dell’occupazione militare israeliana. Tuttavia, il rifiuto di una soluzione di pace che preveda l’applicazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese è una posizione tradizionale dei governi israeliani. Anche durante gli Accordi di Oslo, il governo laburista di Yitzhak Rabin e poi quello di Ehud Barak non vollero la nascita di uno Stato palestinese, ritenendo anch’essi che un autogoverno, sul modello di quanto già previsto nel 1979 negli Accordi di Camp David, fosse sufficiente per rispondere alle richieste dei palestinesi».