Arrigo Sacchi: «Contro la Svizzera all’Italia è mancata la determinazione Serve umiltà per qualificarsi»

Arrigo Sacchi, solo lei può rispondere alla domanda che tutti si fanno.
«Quale sarebbe questa domanda?»
Cosa deve fare l’Italia calcistica per non stare fuori dal Mondiale per la seconda volta consecutiva?
«Deve vincere» (ride).
Questo lo sapevo anch’io. Ma come si vince?
«Tornando a essere la squadra che ha conquistato il campionato d’Europa».
Ovvero?
«Una squadra che gioca un buon calcio. Quello era un bel collettivo che aveva grande attenzione e voglia di dimostrare. C’era una partecipazione molto forte, tutti facevano la fase offensiva e tutti quella difensiva. Era un gruppo».
Poi cos’è accaduto?
«È accaduto che quei calciatori sono caduti nella trappola del successo. Non erano ragazzi abituati ad averlo e, forse, è subentrata un po’ di presunzione. Quando rallenti e pensi che vincere sia facile sei fritto».
Contro la Svizzera, cioè nelle due partite che hanno negato la qualificazione diretta all’Italia, che cosa non ha visto?
«La determinazione e la preoccupazione di fare il risultato, si pensava che in qualche modo sarebbe arrivato».
Merito anche della nazionale rossocrociata.
«Indubbiamente. La Svizzera, storicamente, per noi italiani è sempre stato un cliente difficile. Ricordo, quando allenavo la Nazionale azzurra, che la prima partita della mia gestione la perdemmo in trasferta. Erano allenati da Roy Hodgson che riuscì a qualificarsi al Mondiale estromettendo Portogallo e Scozia. Eppure, fino al ’94, la Scozia si era sempre qualificata per la fase finale della Coppa del mondo. Gli svizzeri fecero una grandissima impresa».
Quali sono stati i maggiori progressi della Svizzera in questi anni?
«Gioca un calcio moderno che mi piace. E ha un bravo allenatore come Murat Yakin».
Mettiamo che l’Italia venga eliminata. Con chi bisogna prendersela?
«Non ci si potrebbe mai accanire contro questa squadra. La Nazionale di Roberto Mancini è l’unica ad avere vinto un titolo internazionale in undici anni di astinenza assoluta».
In passato invece…
«Dall’89 al ’99 i club italiani conquistarono sedici trofei internazionali».
Effetto del suo Milan?
«Il Milan era un esempio».
In che senso?
«Io, a Milano Marittima, sono vicino di casa di Giancarlo Marocchi, grande centrocampista della Juventus di quegli anni. Spesso mi ripete: "Con il vostro atteggiamento in campo, avevate dato coraggio a tutti". Negli anni Ottanta/Novanta nel calcio erano aumentate le conoscenze e le conoscenze portano all’innovazione».
Si può dire che il successo degli azzurri all’Europeo ha illuso l’Italia?
«È stato un miracolo. Un vero miracolo. Per questo ho detto, e lo ripeto, che non potremmo mai buttare la croce addosso a questi ragazzi, vada come vada agli spareggi per il Mondiale».
Lei è sempre stato molto critico con il calcio italiano. Perché?
«Abbiamo cercato di giocare come viviamo, da furbi, prendendo la scorciatoia. Ma la furbizia è già disonestà. Ci sarà un motivo se in Italia c’è il cinquanta per cento della corruzione europea».
Addirittura?
«Abbiamo rovinato l’idea di chi ha inventato questo sport. Che doveva essere di squadra e offensivo. Invece noi lo abbiamo trasformato in difensivo e individuale. Non abbiamo capito che i ruoli si evolvono e non esiste più un calciatore che fa bene solo una cosa, ma tutti devono sapere far tutto. Uno per uno fa uno. Uno per dieci fa dieci».
Ma le squadre italiane adesso non sono più catenaccio e contropiede.
«No, perché ci sono tanti club medi o piccoli che sono organizzati e fanno un calcio propositivo e senza paura. Ma per anni abbiamo privilegiato la fase difensiva, giocando con due o tre calciatori in meno. Quando marchi una punta con tre difensori, ne perdi due, sei dieci contro undici».
Colpa degli allenatori?
«No, perché ce ne sono di giovani, e anche non giovani, bravissimi che hanno una mentalità diversa e progredita. Loro sono il futuro. Ma la nostra storia è quella che le ho detto».
Lei fa sempre la distinzione tra strateghi e tattici.
«Diceva Sun Tzu nell’arte della guerra, un libro scritto tremila anni prima dell’avvento di Cristo: "Quando il tattico incontra uno stratega, a parità di forze, per il tattico c’è già odore di sconfitta". Il tattico aspetta l’errore dell’avversario o il colpo del singolo per vincere. Lo stratega ha un progetto e fa di tutto per realizzarlo. Sa cosa mi disse un giorno Mark Hughes?»
Cosa?
«"Ma come hai fatto a far saltar fuori una squadra come il tuo Milan proprio in Italia, che è uno dei posti in cui, se il campo fosse lungo due chilometri, le squadre giocherebbero le partite negli ultimi metri?" Del resto io ho sentito solo Silvio Berlusconi sostenere che nel calcio bisognasse vincere, convincere e divertire».
Quale scenario immagina se l’Italia non ce la facesse a qualificarsi?
«I dirigenti si mostreranno preoccupati, la stampa si scatenerà per due o tre giorni, probabilmente pagherà l’allenatore. Poi tutto tornerà come prima».
Lei ha sempre avuto parole di elogio per il commissario tecnico dell’Italia, Roberto Mancini.
«Sì, perché lui vuole una squadra che giochi un buon calcio, positivo e di iniziativa. Sbaglia quando lo sento parlare di determinati calciatori. Chi va in campo non deve essere solo piedi, ma anche testa. Servono persone affidabili: ricche di modestia, generosità, entusiasmo, etica del lavoro. A volte quelli che convoca non hanno tutte queste qualità».
Se la sente di fare un pronostico sull’Italia?
«Ovviamente spero che la nostra Nazionale si qualifichi. Sarebbe un capolavoro. Sono fiducioso perché le squadre italiane tirano fuori il meglio quando sono in difficoltà. In questo caso, spero che la tradizione venga confermata».